MINNEAPOLIS – Freedom of speech, libertà di parola. Cos’è? Libertà di parola, così recitano i sacri testi americani, è il diritto di parlare, scrivere e condividere idee e opinioni senza rischiare di incorrere in sanzioni da parte dell’ordine stabilito. Il famoso First Amendment, il primo emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti, il primo di quei primi dieci emendamenti chiamati ad affermare e difendere libertà e diritti individuali, protegge questo specifico diritto proibendo al Congresso di emanare leggi che limitino la libertà di parola. Per essere precisi, ecco come recita il First Amendment: “Congress shall make no law respecting an establishment of religion, or prohibiting the free exercise thereof; or abridging the freedom of speech, or of the press; or the right of the people peaceably to assemble, and to petition the Government for a redress of grievances”.
Ovvero, il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o leggi che ne proibiscano la libera professione; o leggi che limitino la libertà di parola e di stampa; o il diritto delle persone a riunirsi pacificamente in assemblea e di presentare petizioni al governo per la riparazione di torti subiti. Dal 15 Dicembre 1791 il Bill of Rights, ovvero quel che sono i primi 10 emendamenti della Costituzione americana, si erge a paladino della libertà del cittadino. Perché questa, come si canta nell’inno nazionale, è the land of the free, la terra degli uomini liberi. O quantomeno lo “sarebbe”. Condizionale. Per usare il condizionale piuttosto che il presente indicativo non c’è neanche bisogno di riandare a quel 1814 quando Francis Scott Key scrisse The Star-Spangled Banner, quello che divenne l’inno nazionale. Tempi – quelli del post-rivoluzione – di crescita esponenziale per la schiavitù. Si sarebbe infatti passati da poco più di un milione di schiavi del 1810 ai quasi quattro milioni del 1860, subito a ridosso della guerra civile.
Ora quella schiavitù, quella forma di schiavitù, non esiste più, ma il condizionale va usato egualmente se a tema c’è quella espressione della libertà che è la parola. E periodicamente la questione del freedom of speech riesplode, come di questi tempi segnati dalla nuova guerra in Medio Oriente e dalla violenza che di lì si riverbera e materializza negli opposti schieramenti di chi è pro Israele e chi pro Palestina. Soprattutto nei campus universitari dove for better or worse, nel bene e nel male, si forma la gioventù americana. È per questo che i presidenti di tre delle più celebrate (e costose) università statunitensi sono stati chiamati, intervistati (interrogati?) e ascoltati dal Congresso. Massachusetts Institute of Technology, University of Pennsylvania e Harvard sul banco degli imputati. Posticini da oltre 60mila dollari all’anno solo di iscrizione che si trovano di fronte a una domanda: si può in una università americana invocare il genocidio degli ebrei? Si è liberi di farlo o c’è di mezzo qualche norma morale, qualche regola di condotta?
Claudine Gay, presidente di Harvard, Liz Magill, presidente di UPenn e Sally Kornbluth del MIT hanno inequivocabilmente affermato di essere sconvolti da questa ondata di antisemitismo, assicurando il Congresso di aver già intrapreso azioni atte a frenare quest’ondata d’odio che travolge i loro campus. Di fronte alla domanda se sostenessero il diritto di Israele all’esistenza, tutte e tre hanno risposto con un fermo sì. Ma alla domanda se ci sarebbero gli estremi per intervenire con provvedimenti disciplinari nei confronti degli studenti che manifestassero il loro antisemitismo inneggiando al genocidio, le tre presidenti si sono incartate tra risposte evasive e distinguo legalistici, affermando in sostanza che il giudizio dipende dal contesto e dal fatto che alle parole si accompagnino azioni ostili.
Il Congresso non ha gradito e la testa della Magill è già rotolata dal trono di UPenn. Non quella di Claudine Gay, però, nonostante il fatto che il board di Harvard abbia pubblicamente riconosciuto che errori sono stati commessi ed una condanna netta ed inequivocabile dei fatti del 7 ottobre è mancata. Forse perché la Gay è di colore? Libertà di parola e legalismi, equilibri razziali. Come dice Ibram X Kendi, togliere la parola a chi non difende attivamente le minoranze. Così è, ed è tutta pastura per l’elettorato di Trump.
Good Bless America!
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