MINNEAPOLIS – Non so se avete prestato attenzione alla vicenda di Brittney Griner. Per chi non lo sapesse, Brittney è una donnona che gioca da professionista per la squadra di basketball dei Phoenix Mercury, il campionato Wnba, la Nba femminile dove la sopracitata ha già collezionato 7 titoli (“donnona” potrà sembrare un appellativo sconveniente, ma per una persona di due metri e sei centimetri – o 6 foot 9 come si misura e si dice qua – credo ci stia).



Il fatto è che la nostra Brittney oltre ad essere cosi alta è anche di colore, dichiaratamente ed ufficialmente omosessuale, pare faccia qualche uso di stupefacenti, ma soprattutto è americana. Questa combinazione di fattori sicuramente non l’ha aiutata rispetto alla disavventura che si è trovata a vivere in Russia, dove lo scorso marzo è finita in cella – e successivamente condannata a nove anni di reclusione – for smuggling drugs, per contrabbando di droga. Per la precisione “olii all’ hashish” trovati dalla polizia tra i suoi effetti personali durante un controllo in un aeroporto vicino a Mosca.



Vero o artefatto che sia, con una guerra di mezzo a rendere nuovamente infiammati i rapporti tra i due Paesi, ai russi non deve essere sembrato vero cogliere con le mani nel sacco un personaggio di un certo calibro e poterci mettere le mani addosso. Da usare come merce di scambio. La stampa americana ha subito lanciato una campagna mediatica in difesa della Griner, mettendo sotto pressione l’Amministrazione Biden affinché attraverso le più sotterranee e misteriose vie diplomatiche si riportasse la campionessa a casa. Brittney, campionessa di basketball, certo, ma non solo: paladina della parità razziale e pure paladina della libertà di sexual orientation con i suoi matrimoni omosessuali.



E così è andata, perché mentre l’interesse generale dei mezzi di informazione – e quindi del pubblico – andava scemando (come è inevitabile che avvenga col trascorrere del tempo), con Brittney sempre in cella, le diplomazie dei due Paesi hanno mantenuto i contatti e proseguito le negoziazioni fino a giungerne ad una. Così l’altro giorno, come in una scena dello spielberghiano Bridge of spies (Il ponte delle spie), è avvenuto lo swap, lo scambio: i russi hanno rilasciato “il buono” di questa storia, la Griner, e noi in contropartita “il cattivo”.

Sì, perché per quante cose possano non piacerci di Brittney Griner, nulla di quel che possa aver fatto si avvicina minimamente ai misfatti di Viktor Bout, il trafficante d’armi non per niente soprannominato “il mercante di morte”. Un buono ed un cattivo sullo stesso piatto della bilancia, proprio come nel film di Spielberg che fa il verso ai fatti realmente accaduti che portarono nel 1960 allo scambio tra il Us Air Force Francis Gary Powers e Rudolf Abel, agente segreto, spia del temutissimo Kgb. “She’s safe, she’s on the plane, she’s on her way home”, è salva, sull’aereo e sulla via di casa, ci ha fatto sapere Joe Biden presentandosi davanti ai microfoni della stampa assieme a Cherelle, l’attuale moglie di Brittney.

Ma cosa ci faceva la nostra campionessa in Russia? Giocava a pallacanestro, perché lei come tante altre professioniste del basketball americano si va a guadagnare la pagnotta all’estero durante la off season, quando i canestri americani tacciono. Perché le cestiste americane guadagnano (relativamente) poco, ed una star come Brittney Griner porta a casa sui 250mila dollari all’anno, salario di gran lunga inferiore a quello dei colleghi uomini. Come del resto di gran lunga inferiore è lo spettacolo offerto dal campionato femminile. Ma di questo abbiamo già parlato a proposito delle conquiste sindacali delle componenti la nazionale di calcio Usa.

In questa storia non c’è né un lieto fine, né un’amara conclusione e non sono sicuro che esista una morale se non che, buoni o cattivi che si sia, da soli la libertà non ce la possiamo dare.

Have a blessed Advent time, and God Bless America!

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