WASHINGTON – Per una volta, scrivo questa cartolina da Washington DC. Qualche giorni nella capitale americana e un viaggio nel passato, lontano e più recente, visitando il National Museum of African American History and Culture, la cui mostra permanente “The journey towards freedom” racconta gli episodi della storia americana sobriamente intitolati: “Schiavitù e libertà”, “Il tempo della segregazione” e “Un’America che cambia”.
Voluto dai soldati neri all’indomani della Guerra civile per ricordare e onorare i loro sacrifici, il museo finalmente inaugurato nel 2016 da Barack Obama e George Bush propone un’immersione in oltre 400 anni di storia afroamericana a partire dall’arrivo dei primi schiavi dall’Africa per dare pieno spazio al contributo di questa comunità nella costruzione della nazione, nei suoi episodi più gloriosi come in quelli più oscuri.
Questo museo non è solo un santuario che racconta la storia degli afroamericani per gli afroamericani, ma è stato voluto, pensato e persino costruito come una dichiarazione di intenti, un forte atto politico: costruito nella capitale, sul National Mall, a due passi dal Monumento di Washington eretto in onore del padre della nazione, il museo intende incarnare per tutti i cittadini americani le prime parole del preambolo della Costituzione: “We, the people”, “Noi, il popolo”, e il messaggio è chiaro: questa è la nostra storia comune, indipendentemente da chi siamo, dal colore della nostra pelle, e dobbiamo affrontarla, riconoscerla e accettarla, perché solo una memoria condivisa ci permetterà di essere tutti liberi. È infatti è la parola libertà che si sente in tutte le gallerie, prima come un sussurro e poi ben presto come un grido, un’esigenza di sopravvivenza, un’evidenza.
Questo museo racconta il paradosso di una nazione fondata sulle idee di libertà e uguaglianza, ma anche costruita sulla schiavitù, sulla segregazione e sulla lotta per i diritti civili. Il museo racconta la storia del peccato originale e del desiderio di redenzione dell’America e rappresenta, come spiega il suo direttore, “un’opera di riconoscimento in vista della riconciliazione, della comprensione e dell’unità”.
Un’attenzione alla riconciliazione che l’elezione di Barack Obama alla presidenza aveva completamente incarnato. Era la vittoria dell’America post-razziale annunciata nel famoso discorso di Philadelphia del 2008. Ricordando la profonda ferita della comunità afroamericana e “rifiutando assolutamente l’idea di un razzismo bianco endemico”, Barack Obama si era presentato non come il primo presidente nero degli Stati Uniti, ma come il primo presidente al di là della razza, come alcuni hanno spiegato, “capace di affrontare l’eredità afroamericana senza impantanarsi in essa”, accettando la storia nella sua interezza e gli uomini così come sono per ridare unità alla nazione.
L’auspicio sembra essere stato vano e il motivo per cui la riconciliazione è così importante è che gli Stati Uniti sembrano ancora lottare con quello che alcuni chiamano razzismo sistemico, “razzismo istituzionale” nelle parole dell’ex presidente George Bush. Visitando il museo, intravedo la ferita originale e cerco di trovare una spiegazione alle tensioni, di capire perché la questione razziale sia ancora così virulenta. Mi rendo conto che, vivendo a New York da quasi due anni, l’argomento è complicato, delicato e che anche per me, straniera che vive a Manhattan, riemerge nelle conversazioni più innocue, costringendomi a controllare il mio linguaggio, a essere sottile nei miei ragionamenti, a rinunciare ad alcuni argomenti anche con amici per evitare gli effetti stigmatizzanti o discriminatori di una parola o di un commento. Non me lo aspettavo. Le ferite sono ancora vive. Sto imparando. “Il passato non è morto e sepolto, non è nemmeno passato” ammoniva William Faulkner.
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