Caro direttore,
dunque la Corte Suprema degli Stati Uniti ha colpito ancora. Prima ha revocato “Roe vs. Wade”, limitando l’abuso dell’aborto che si è verificato negli anni, ma lasciando astutamente la scelta agli Stati. Poi è arrivata la bocciatura della “Affirmative Action”, che aveva creato delle quote in ogni campo, universitario e aziendale, per favorire le minoranze, primariamente gli afroamericani. Ma la Corte ha anche bocciato il piano di Biden per cancellare il debito studentesco a 40 milioni di universitari americani.
Siamo ormai in attesa della prossima offensiva di una Corte in mano ai repubblicani, forse saturi degli estremismi di una sinistra che ha perso il senso della moderazione. Una sinistra che divide la sinistra e consolida la destra. Nel tradizionale linguaggio politico americano si parlava una volta di “liberali” e “conservatori”, non si usava “sinistra” e “destra” perché queste parole sapevano di socialismo o, peggio, comunismo. Spettri temuti e da tenere lontani. Ma oggi, ora che lo scontro politico e culturale è diventato una guerra virulenta, non c’è ritegno. Mi soffermo sul caso della Affirmative Action per raccontare un aneddoto che dimostra i pericoli di un fenomeno che ha subito una svolta negli anni 90 ed è continuato fino ai giorni nostri.
Tutto ha preso il via da una lontana legge del 1961, emessa dal presidente John F. Kennedy e poi ampliata nel 1965 dal suo successore Lyndon B. Johnson, sulla discriminazione di razza, colore, religione e origine, per poi arrivare a una contraddittoria e controversa interpretazione che farà scattare, 62 anni dopo, l’attuale abrogazione. In quegli anni 90, segnati da un crescente fervore antidiscriminatorio, o meglio anti-razzista, nei campus delle privilegiate scuole private si cominciò a dover stare attenti a esprimersi liberamente. La tradizione, in queste Prep Schools dove gli studenti erano in competizione per l’ammissione alle più prestigiose università americane, voleva che questi ultimi entrassero in aula ad annunciare con entusiasmo dove erano stati accettati. Capitò che una studentessa, felicissima, facesse sapere che aveva avuto una risposta positiva da Yale, un’altra che lei sarebbe andata a Princeton, mentre una terza aggiunse, tristemente, di aver avuto replica negativa da Harvard. La prima era afroamericana, la seconda ispanica e la terza “bianca”.
“Così stanno le cose purtroppo” disse con compassione la professoressa presente in quel momento. Ci fu subito una ribellione. Seguì una forte discussione, da cui la docente prese le distanze, per lasciare che gli studenti stessi si occupassero del dibattito. Gli studenti neri erano offesi, gli ispanici invece sapevano di essere fra i favoriti e a loro andava bene così. Gli altri rimasero per la maggior parte vilmente in silenzio. Quella stessa sera un dirigente della scuola telefonò all’insegnante esigendo da lei pubbliche scuse di fronte a tutta la scuola. Il giorno dopo anche una lettera scritta da un gruppo di colleghi insisteva per le scuse. Non solo, chiedevano di licenziarla.
Ironia vuole che la studentessa di colore ammessa a Yale avesse ottenuto per tre anni consecutivi da questa professoressa l’onore del primo premio in spagnolo. La studentessa rifiutata dalla politicamente corretta Harvard sarebbe poi andata a Stanford. Un preside saggio, per fortuna, chiuse velocemente la faccenda proteggendo l’insegnante che lui stimava e rispettava.
Nell’ultimo decennio i licenziamenti nelle università, nelle scuole e nelle aziende, si sono moltiplicati, per aver espresso una varietà di opinioni che sono state percepite come offensive verso “minoranze” anche nuove. La Corte Suprema ha finalmente detto “Ora basta”.
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