MINNEAPOLIS – È riesplosa la tragedia israeliana e palestinese, abbiamo appena visto passare – ed evitato – lo spettro dell’ennesimo shutdown federale, lo Speaker della Camera è stato cacciato, ci sono le beghe legali di Trump, assistiamo alla lotta tra gli innumerevoli repubblicani pretendenti alla nomination presidenziale Usa, c’è persino Brooklyn allagata, ci sono mille altre cose. Ma nell’America di giovani e giovanissimi sparsi nel cuore del Paese queste cose sembrano importare molto poco. Questo è il tempo di Homecoming, e l’Homecoming di gran lunga conta più di tutto il resto. Per la maggior parte dei ragazzi di superiori e College cosi è.
La mia vita americana è stata una vita “adulta” (si fa per dire) essendo che in questo Paese ci sono arrivato alla veneranda età di 39 anni. Non avendo vissuto qui l’adolescenza, fenomeni come l’Homecoming, la Prom e, per le ragazze, il Sweet Sixteen, sono sempre risultati strani, estranei a me e alla nostra famiglia tutta. Estranei a noi come genitori e di conseguenza estranei anche ai nostri figli (tutti nati in Italia) che li hanno saltati a piedi pari senza fare una piega (quasi). Con poche recriminazioni e rimpianti.
Adesso, trent’anni dopo, tocca ai nipoti. Loro si “born in the USA”, a denominazione d’origine controllata. Ed osservo che per loro l’incontro con queste “tradizioni” è tutta un’altra musica. In particolare questi fine settimana d’inizio ottobre sono tempo di Homecoming. Tradotto letteralmente, il weekend del ritorno a casa. I diplomati di una certa scuola, i laureati di un certo College tornano “a casa”, tornano alla loro Alma Mater per partecipare a vari eventi unendosi agli studenti di oggi (che sono i veri protagonisti della faccenda). Eventi vari sì, ma fondamentalmente due: una partitona di football tra la squadra della loro scuola opposta a una rivale storica e la grande serata danzante con tanto di elezione di Re e Regina.
Naturalmente, come nei film perché questa è davvero l’America dei film, ci si addobba a dovere (e piacere) per entrambi gli eventi. Maglie, magliette, cappelli e cappellini, bandiere e bandierine della squadra del cuore per la partita di football e appariscenti e un pochino provocanti capi di vestiario per la grande serata di ballo. Quella della “elezione”. Sì, elezione perché si vota proprio, sotto lo sguardo più o meno vigile di preside e professori, guardiani dell’ortodossia morale della serata. Si vota, ma naturalmente non ci sono né programmi elettorali né alcun tipo di responsabilità o rappresentatività legati al riconoscimento.
Allora chi si vota? Per cosa si vota? Chi diventa Re? Chi la Homecoming Queen? In linea generale King e Queen sono semplicemente le persone più belle (esteticamente) e più ambite della scuola. Se poi fossero anche socialmente attive tanto di guadagnato. Ma se vogliamo dire come veramente va la faccenda, le più “belle”. Quindi, in sostanza, si vanno ad onorare persone che probabilmente sono state trattate come piccoli principi e principesse, come paradigmi di “bellezza”, per tutta la vita. Il loro percorso trionfale giunge al suo apice con l’incoronazione a Re e Regina della scuola. Avevo più o meno presente cosa fosse l’Homecoming, ma non ci avevo mai fatto veramente attenzione fino a qualche giorno fa, quando ho capito che la nipote più grande era tutta presa ed eccitata dall’attesa di questo weekend.
Mi è suonato stonato e quantomeno anacronistico che in tempi come questi di lotta al body shaming (criticare, deridere la gente per il corpo che ha), nelle scuole si sottolinei ancora il privilegio della bellezza estetica. Discriminazione crudele, ingiustificata e non necessaria, tributo alla vita come sogno o inno alla gioia di vivere alla faccia della political correctness? Cosa ne dite?
God Bless America!
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