MINNEAPOLIS – Ieri, 8 marzo, Festa della donna. Che sia per le poverette perite nel rogo della camiceria di Manhattan nel 1908, perché nel 1922 Lenin decise di dedicare loro un giorno speciale, o per qualsiasi sempre degna ragione, sempre Festa della donna è. Ma per me, anzitutto, anniversario della mia personale scoperta dell’America e di ventinove anni di una vita unforeseen and unforeseeable, imprevista ed imprevedibile. Per cui non me ne vogliano le donne di tutto il mondo se mi permetto di usare l’8 marzo per riflettere un attimo su quel che in questi anni ho vissuto – e magari sono pure riuscito a capire – di questa terra e di questa gente.
Sbarcai in una New York City su cui tale Rudolph Giuliani aveva appena messo le mani. In poco tempo l’avrebbe ribaltata come un calzino, trasformandola nel bene o nel male da regno del crimine ad una sorta di Disneyland (per ricchi e turisti). Bill Clinton era il giovane presidente che avrebbe siglato cose più o meno discutibili come “The North American Free Trade Agreement” (Nafta) e “The Violent Crime Control and Law Enforcement Act”, tentando pure di portare a casa un sistema di Healthcare (sanità) che tutelasse tutti quei cittadini impossibilitati ad usufruire delle costosissime assicurazioni sanitarie private. Tentando (almeno facendo “la mossa”) e fallendo totalmente (senza che nessuno si scomponesse più di un tanto).
Erano altri tempi – come sentivamo dire dai nostri vecchi a noi giovani ad ogni occasione. Adesso lo dico io ripensando a quei giorni in cui fumare era considerato normale ed avere rapporti omosessuali no, gli uomini potevano essere chiamati a combattere in prima linea e le donne se ne stavano nelle retrovie, si potevano ancora fare battute o semplicemente commenti a voce alta su questo e quello senza correre il rischio di essere tacciato di razzismo o discriminazione, Coca e Pepsi ci facevano intossicare di zucchero senza che nessuno se ne lamentasse e le vending machines nelle scuole sparavano candy bars da 6mila calorie a morso glorificando obesità giovanile e diabete, il Presidente che veniva eletto era il “mio” Presidente, che l’avessi votato o meno, e tante altre cose. Ma soprattutto l’American dream appariva ancora alive and kicking, vivo e vegeto, una promessa per tutti, compreso me stesso che di lì a poco mi sarei lanciato in avventure che non avrei mai immaginato possibili nella mia “vita precedente”: business, musica, libri. Come disse Giovanni XXIII, la vita come realizzazione del sogno della giovinezza.
Cosa resta oggi di quel sogno dopo ventinove anni, cinque Presidenti, tante crisi, guerre insensate, bolle finanziarie, rivolgimenti sociali, divisioni, fratture e ferite che continuano a sanguinare, ribaltamenti della morale consolidata, caduta delle evidenze di un tempo, avanzata fulminante dell’ideologia (quasi impercepibile trent’anni fa)? Cosa ne è di quel filo d’erba, bello e lucente, dalla fragile radice che è la democrazia americana?
Mi ponevo questa domanda proprio durante il New York Encounter, neanche un mese fa, mentre guardavo migliaia e migliaia di persone varcare la soglia del Metropolitan Pavilion. Alla ricerca di qualcosa. E pensavo a quell’immagine del filo d’erba, fragile, eppure ancora lì, fragile eppure invincibile. Insomma, per dirlo in parole povere e fuor di metafora, con tutti i casini che abbiamo, i guai che combiniamo, come fa l’America a stare ancora in piedi?
Ho solo una risposta, ed è quello che più mi stupì ventinove anni fa, quando sbarcai in questa terra con tutto il mio preconcetto da post-sessantottino. È il cuore semplice che cerca l’infinito, un cuore che l’ideologia non è ancora riuscita a conquistare. Oggi come ventinove anni fa farsi americano con gli americani significa sapere che se si ha fame e sete è perché somewhere, somehow c’è da mangiare e bere.
God Bless America!
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