MINNEAPOLIS – Di “Affermative Action” ci è già capitato di parlare. Ma ci sono novità. Tanto per rinfrescare la memoria, con il termine “Affirmative Action”, chiamata anche “positive action” o “positive discrimination” (azione o discriminazione positiva), si intende un insieme di azioni, politiche e pratiche operative che hanno come obiettivo l’inclusione all’interno di strutture organizzate (come ad esempio le università) di gruppi particolari in base al loro genere, razza, sessualità, credo o nazionalità. In parole povere, interventi atti a favorire l’ingresso di persone appartenenti a questi gruppi in ambiti in cui essi siano “sottorappresentati”. Pertanto, ad esempio e soprattutto, come aumentare l’accesso di detti gruppi all’istruzione ed alla educazione di più alto livello, ed anche come colmare le disuguaglianze nell’occupazione e nella retribuzione.
Cosa ne dite? Pezza per rammendare gli strappi e rabberciare gli squilibri sociali, o necessario atto dovuto in nome di giustizia e democrazia? In America, della Affermative Action se ne è sempre detto tutto ed il contrario di tutto, perché è evidente che questo tipo di intervento, questa dinamica – attuata ufficialmente nel 1961 per mano di John Fitzgerald Kennedy – è stata concepita fondamentalmente per rimuovere ostacoli e rimediare ad ingiustizie perpetrate nel passato. Ancora una volta le conseguenze dei sensi di colpa della piaga incurabile che non vuol guarire.
Kennedy ad ogni buon conto si era limitato a firmare un Executive order col quale si disponeva che gli appaltatori governativi intraprendessero azioni positive per “garantire che i candidati siano assunti e che i dipendenti siano trattati [equamente] durante l’impiego, indipendentemente dalla loro razza, credo, colore o origine nazionale”. Che non è esattamente quello che tante università statunitensi sono andate spingendo con le loro politiche di ammissione. È questa la ragione per cui, partendo delle politiche di Harvard e dell’Università del North Carolina, la questione è finita davanti alla Corte Suprema.
Bene, ecco la novità. La Corte Suprema si è appena pronunciata stabilendo (con un voto di 6 a 3 e 6 a 2) che entrambi i programmi, Harvard e North Carolina, in cui la “razza” rappresenta un fattore rilevante ai fini dell’ammissione, violano l’Equal Protection Clause della Costituzione e quindi sono da rigettare. In altre parole la Corte attraverso la sua maggioranza dice ad Harvard e North Carolina – ma in buona sostanza a tutto il Paese – che è ora di smetterla con queste politiche di ammissione perché di fatto si finisce per combattere un razzismo imponendone un altro. Essere sottorappresentati non basta a giustificare una inclusione che inevitabilmente comporta l’esclusione di altri (quantomeno altrettanto meritevoli).
Come mi è già capitato di dire, vi immaginate se “i bianchi” si appellassero all’NBA perché sottorappresentati nella lega di basketball? O gli African-americans se la prendessero con la lega dell’hockey perché di African-americans tra i giocatori di hockey ce n’è un 3%?
La domanda comunque resta: con la pronuncial della Corte facciamo un passo avanti o un passo indietro? Secondo Sonia Sotomayor, giudice di minoranza, liberal e primo giudice ispanico della storia, questo pronunciamento della Corte “si frappone e annulla decenni di precedenti ed epocali progressi”.
Chi ha ragione?
Non siamo noi i giudici, ma ancora una volta dobbiamo chiederci come giudicare. Non possiamo chiedere alla “legge” quello che la legge non può darci.
God Bless America!
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