È opinione ormai diffusa, nel mondo degli studiosi americani dei media, che non vi siano più confini chiari tra la cultura vista nel suo lato più performativo, e la politica; e si parla di “teatro politico”. Gli eventi recenti in questi ambiti, come l’allontanamento di Tucker Carlson da Fox News, possono suscitare una domanda generale sulla politica come teatro: è un bene o un male? E si può azzardare subito la risposta, a costo di dispiacere ai puristi (nel senso stilistico così come in quello etico): è fondamentalmente un bene, per la libertà d’espressione.



Tucker Carlson: paradossalmente nato in California (nel 1969) e paradossalmente laureato a Trinity College nel Connecticut. “Paradossalmente” nel senso che questi due Stati, alle estremità rispettivamente occidentale e orientale degli Usa, sono zone per tradizione democratiche; e invece è là che si è formata questa personalità decisamente conservatrice. Sposato con quattro figli, alto e di piacevole aspetto (con un volto un po’ paffutello che ha fatto la gioia dei caricaturisti), Carlson è stato – fra il 2016 e il 2023 – il più popolare conduttore televisivo negli Stati Uniti e ha plasmato una parte molto vasta dell’opinione pubblica.



E, soprattutto, era un performatore che (benché la sua posizione, come detto, fosse chiara) andava essenzialmente al di là delle divisioni più anguste fra conservatori e progressisti; questa è la ragione principale per cui il “cane da guardia” dei democratici, il Washington Post (Wapo), gli ha sempre dedicato qualcosa di assai simile all’odio, con la fascinazione che spesso si accompagna a tale sentimento (Wapo in questi giorni ha pubblicato quasi una decina di articoli, tutti biliosi, sul caso Carlson).

Ma lasciamo alla politica politicante e alla dietrologia le domande più tecniche (tipo: perché è accaduto questo adesso, se vi sarà un riflesso e quale sui movimenti elettorali, che cosa farà Tucker nel dopo-Carlson); e torniamo al teatro politico e alla libertà d’espressione.



Tucker sarà ricordato per aver portato un po’ d’aria respirabile sotto quella pesante cappa che è il mondo giornalistico e televisivo statunitense, “sinistro” nella sua maggioranza semi-totalitaria, che sembra essere la somma di tutte le cappe (dorate di fuori ma di piombo dentro) sotto le quali si trascinano gli ipocriti nell’Inferno dantesco. E qual era il suo segreto? Facile a dirsi, ma tutt’altro che facile a realizzarsi: versare nello shaker un quarto di senso comune, un quarto di metonimia ovvero di prendere-la-parte-per-il tutto (come dire: focalizzarsi su un boschetto e trasformarlo in un paesaggio), un quarto di iperbole, e un quarto di mimica e verbalità espressive, che consentano di “dire” quello-che-non-si può- dire; poi agitare, e servire ghiacciato.

È su questa sua grande capacità di fare “respirare” le notizie che Tucker Carlson domani potrebbe giocare la carta di un gran ritorno. Ed era “semplicemente” questo, che faceva infuriare i membri di quel “collegio / de l’ipocriti tristi” (Inferno, XXIII) che comprende la maggioranza dei giornalisti della stampa e della televisione americane oggi, pronti a saltar su con l’accusa di: Ecco, ecco, ha detto una bugia!

La difficile semplicità, insomma, della manovra di Tucker consisteva nel fatto che essa fotografava il modo in cui tutte le persone comuni (a parte, dunque, i politici e i giornalisti) parlano – qualunque sia la loro posizione politica – degli eventi politici del giorno: una base di senso comune, su cui si innestano improvvisamente sbalzi di fantasia e una certa voglia di scherzare, per dimenticare temporaneamente l’oppressiva realtà. In questo senso Tucker Carlson era un parafulmine; e non abbiamo ancora cominciato a vedere le conseguenze della scomparsa dal panorama sociale e politico di un personaggio come lui.

D’altra parte, il pericolo di tutto questo teatro è la superficializzazione e la concentrazione narcisistica (il soggetto che fa notizia di sé stesso). Un certo tipo di performanza della libera espressione può portare a un disincanto o stanchezza verso tale libertà. Ma non nel senso di volerla limitare, bensì in quello di volerla approfondire: sorge il desiderio di procedere dal teatro della libertà d’espressione a un approfondimento della libertà espressiva.

In questo senso, la “vecchia” Europa nei cui termini pensano ancora (con accondiscendenza) certi politici americani, non si rivela vecchia affatto, anzi può ancora avere qualcosa da insegnare (e poi, se vogliamo buttarla sul poetico, Arthur Rimbaud non parlava dell’Europa dai vecchi parapetti, ma dell’Europa “dagli antichi parapetti”: c’è una bella differenza). Ma sui corrispettivi europei di Tucker Carlson bisogna rimandare il discorso ad altra occasione.

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