MINNEAPOLIS – Abraham Lincoln, 3 ottobre 1863, nel mezzo della fratricida, sanguinosa e devastante guerra civile che costò più di 620mila vite: “È dovere delle nazioni, così come degli uomini, dipendere dal potere supremo di Dio; confessare i propri peccati e le proprie trasgressioni con umile dolore, ma con la sicura speranza che il pentimento genuino condurrà alla misericordia e al perdono; e riconoscere la sublime verità, annunciata nella Sacra Scrittura e provata da tutta la storia, che sono beate quelle nazioni il cui Dio è il Signore. Siamo stati i destinatari dei doni più preziosi del cielo; siamo stati preservati per tutti questi anni in pace e prosperità; siamo cresciuti in numero, ricchezza e potere come nessun’altra nazione è mai cresciuta. Ma abbiamo dimenticato Dio. Abbiamo dimenticato la mano benevola che ci ha preservato nella pace e ci ha fatti moltiplicare, ci ha arricchito e rafforzato. Invano abbiamo immaginato, nell’inganno del nostro cuore, che tutte queste benedizioni fossero prodotte da una nostra saggezza e virtù superiori. Inebriati dal successo ininterrotto siamo diventati troppo autosufficienti per sentire la necessità di rendere e preservare la grazia, troppo orgogliosi per pregare il Dio che ci ha creato”.



Thanksgiving, fuor di dubbio la più grande festa nazionale che si celebra negli Stati Uniti, viene di lì. La storia l’abbiamo già raccontata in passato: dalla tradizione creatasi un po’ alla volta tra alcuni dei primi coloni alle soglie del duro inverno, al primo Thanksgiving ufficiale celebrato “una tantum” (così avrebbe dovuto essere) da George Washington nel 1789, anno in cui il condottiero Washington giurò come primo presidente del Paese, fino alla instancabile insistenza e implacabile passione per l’unità nazionale della signora Sarah Hale, premiata dopo tanti tentativi dal riconoscimento di Lincoln nel 1863.



Ma anche se la storia la sappiamo, tornare con lo sguardo alle parole di Lincoln, almeno una volta all’anno, male non fa di certo. Capisco che istintivamente si possa pensare a Thanksgiving come “roba americana”, come un Halloween, una Sweet Sixteen o una Prom. Ma Thanksgiving, nel suo significato vero e nella sua ragione di essere, è un’altra cosa. Americano, fuor di dubbio, frutto della storia di questo Paese, ma in qualche modo quel che ci dice è vero per tutti. La coscienza di dipendere dal Mistero, il richiamo alla consapevolezza che alla radice tutto è grazia, non è né un tacchino né una zucca, non parla solo inglese e non ha confini né di tempo né di spazio. Vale per il presidente di ieri e di oggi, per il soldato israeliano e per il guerrigliero di Hamas, per russi e ucraini, per le persone comuni come me e te. Il “peccato” è che purtroppo neanche tanti americani sanno più che cosa si celebri in questo ultimo giovedì del mese di novembre. Usi e costumi permangono, ma la tradizione senza memoria perde il suo valore e la sua forza.



Così anche quest’anno, quando ci siederemo a tavola con tutta la tribù e qualche gatto randagio bisognoso di un luogo che lo accolga, io, padrone di casa, immigrato qui tanti anni fa, ricorderò a tutti questa storia. E insieme ringrazieremo il Signore per tutto, perché tutto è dono. In fondo Thanksgiving prepara la strada al Natale, ci riempie di attesa. L’attesa del dono più bello. Happy Thanksgiving and God Bless America!

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