NEW YORK — Quando per entrare al MoMA di Manhattan bisogna attraversare labirintici viali con guardiani sparsi qua e là, e far vedere il contenuto della borsa a ciascuno; quando ogni cittadino statunitense sa che dovrà avere una specie di carta d’identità entro l’anno 2020, e quando viaggerà fra uno Stato e l’altro avrà forse anche bisogno di presentare il passaporto; quando appena si passeggia fra la folla in questa capitale del mondo che sembra essersi ingigantita ancora, perché ci sono più persone e più grattacieli, tutti che gareggiano per stare nello stretto spazio di questa insolita isola; e ad un tratto si sente il polso di una nazione ancora più tesa, tesissima, e fremente di angoscia incontrollabile perché ogni giorno i media annunciano le Breaking News, si capisce subito che qualcosa è marcio in questo regno. 



Eppure chi con l’occhio dietro al cellulare o la macchina fotografica vuole cogliere ogni suo angolo di bellezza, e non ci riesce perché c’è troppo da vedere, troppo di nuovo ed esaltante, non si può non esserne meravigliati. Bisogna uscire per poter entrare. Non è un gioco di parole ma piuttosto una decisione esistenziale e paradossale. Quando si rimane troppo a lungo dentro ad una città si diventa miopi. Si perde la prospettiva che solo uscendo, allontanandosi — fisicamente ma anche metafisicamente — ci permette di inquadrare meglio la sua totalità. 



Certo, non si parla di una Shangri-La. Le sue vie abbruttite dal degrado, e la disperazione che cresce ovunque e sempre in ogni luogo complesso, come in questa metropoli, ci fanno apparire più sconcertante la sua bruttezza nel contrasto con la sua ricchezza; basta scendere nelle sue budella, decidere di prendere la metropolitana da Brooklyn invece dell’autobus espresso (comodo ma più costoso), dove si trovano non solo gli sventurati che entrano per fare i loro folli discorsi e richiedere soldi ai passeggeri, catturati dai cellulari o talvolta persino da un libro; basta non lasciarsi soffocare dall’aria dei passaggi sotterranei, e non fuggire alla vista dei ratti che si spostano tra i binari luridi e pieni di detriti, di bottiglie e di altri rifiuti. Basta questo viaggio, che è il favorito dei newyorkesi perché arriva ovunque, per non scordare la contraddizione in cui vivono i suoi cittadini, e quelli del mondo. 



E allora si va alla Morgan Library, dove il nostro Renzo Piano ha fulminato di luce l’atrio ora spettacolare, modernizzando con un colpo di genio una gloriosa biblioteca prima tutta di legno caldo ma buio. Qui, al contrario di quel supermercato che è diventato il Museo di Arte Moderna, i pochi che arrivano trovano subito un solo bancone, dietro al quale a poca distanza stanno dei tavolini e sedie di ferro bianco che sembrano filigrana, per accogliere chi si voglia fermare a fare un elegante spuntino, bagnati dal sole che inonda il grande salone. C’è anche una sala più appartata, di fianco, per chi desideri raccogliersi ancora più intimamente, e certo anche più silenziosamente, per fare colazione.

Sempre di Renzo Piano è anche il nuovo museo Whitney, all’inizio della High Line, il giardino che cresce sopra i binari arrugginiti dei treni commerciali di una volta, ora preziose e storiche rovine di un tempo passato. Un giardino soprelevato che passa sopra le strade dal perenne traffico, allungandosi fra palazzi che sono lì da anni e altri nuovissimi di luminoso vetro che specchiano con magiche pennellate il paesaggio circostante. Dall’interno di questo edificio dedicato all’arte americana si ha la sensazione di essere sempre simultaneamente all’esterno: una brillante intuizione di chi, dalla sua nativa Penisola, ha saputo vedere i fiumi e il mare che stanno in torna a quest’isola, e il moltiplicarsi di terrazzi che qui si trovano sui tetti di palazzi che non sono ancora grattacieli. 

Poi per caso si va a Broadway a vedere un musical: Come from away. Dove, per cento minuti senza intervallo, una quindicina di attori assieme a una mezza dozzina di musicisti recitano, cantano e ballano scambiandosi i ruoli per raccontare, con un’eccezionale vivacità e bravura, uno straordinario evento. Una settimana dopo gli attacchi del 11 settembre 2001 (quando i cieli degli Stati Uniti sono rimasti “frozen”: chiusi al traffico aereo), 38 aerei vengono dirottati e atterrano in un piccolissimo paese di Newfoundland e Labrador, in Canada, dove quasi 7mila passeggeri sono ospitati per giorni colmi di paura e incertezza da una popolazione di circa 9mila persone. Questa storia, che pochi conoscono ma che è stata documentata, commuove ogni volta il pubblico dei teatri americani. 

E si esce felici. Perché la bellezza, che va di pari passo con la bruttezza in questa New York City, e la grandezza umana che si manifesta nei momenti più drammatici, ci riscattano, come le colonne di luce che si sono alzate anche questo 11 settembre dal buco nero di Ground Zero con l’apparizione delle farfalle notturne che nei loro voli concentrici sembravano non volerci far dimenticare le anime ancora inquiete degli scomparsi. 

Così, quando crescono i giardini ornati fra le rovine e il teatro arriva al cuore, si capisce che questo regno è semplicemente e favolosamente umano.