NEW YORK — “Poteva andare meglio”, si starà dicendo Donald Trump buttando un occhio sui risultati delle elezioni di ieri. I Repubblicani si inchinano ai Democratici perdendo il Kentucky, uno degli stati storicamente più “rossi” (colore che rappresenta i conservatori) di sempre. Donald era volato in Kentucky il giorno prima delle elezioni cercando di mettere una pezza a sostegno di Matt Bevin, governatore uscente. “Se perdete mandiamo un pessimo segnale a tutto il paese”, aveva messo in guardia i suoi sostenitori. E sempre con la sua aria sardonica, “Se perdete diranno che Trump ha patito la più grande sconfitta nella storia del mondo”.



Beh, è andata come è andata. Poteva andare meglio per il Grand Old Party anche in Virginia dove ora sia Camera che Senato sono nelle mani dei Democratici.

“Poteva andare meglio” si starà dicendo Trump, “ma non mi scompongo per questo”. Per poi concludere, “Hanno perso loro, non io. Glielo avevo detto, ‘Se perdete…’”.



Le elezioni statali sono solitamente snobbate dai commentatori politici. Ci sono sempre in gioco tanti fattori locali che non necessariamente riflettono lo scenario nazionale, un po’ come per le amministrative in Italia. Tuttavia con l’impeachment incombente e le presidenziali ad appena un anno di distanza, questo genere di segnali elettorali qualcosina dicono. Ma il Presidente resta convinto che una cosa è il partito, un’altra è Donald Trump, soprattutto quando il partito perde.

Siccome la democrazia sembra ormai essersi ridotta a poco più che un “popularity contest” (concorso di popolarità), il Presidente continua a combattere la sua battaglia convinto di poter continuare a vincere in forza della sua popolarità. Trump non è certamente un politico sofisticato, ma si è dimostrato un maestro nel cavalcare quel processo di polarizzazione che non ha inventato lui, ma che lui ha trasformato in efficace strumento di potere: basta avere metà paese più uno dalla tua, e poco importa cosa ne pensino gli altri.



Tutto il lavoro politico va in quella direzione: fidelizzare i fidelizzati. Per quanto ciò risulti frustrante per i Democratici, per quanto possa istintivamente risultare repellente a tanti come atteggiamento antidemocratico o addirittura iniquo, questo è lo stato dell’arte, il panorama politico dell’America di oggi.

E se c’è una ragione che ha spinto Nancy Pelosi (originariamente contraria) a lanciare l’operazione impeachment ad un anno dalle elezioni presidenziali è che i Democratici, pur essendo capaci di vincere tante battaglie elettorali (come dimostrato anche ieri) sanno che la guerra contro Trump rischiano seriamente di perderla.

Perché? Perché per sconfiggere Trump i Democratici non possono lanciarsi a combattere sul terreno della polarizzazione, dove rimedierebbero certamente un’amara sconfitta. Ai Democratici per farcela ci vorrebbe qualcuno davvero capace di dialogare, di abbracciare il paese nella sua totalità al di là di poli e barricate ideologiche. Una vera alternativa al modo di essere di Trump, quantomeno come spirito.

Ma chi sarebbe questo candidato capace di non frustrare i progressisti e non spaventare i moderati? Biden, Warren, Sanders? O tra i nuovi volti la Harris, Booker, Buttigieg o Tulsi Gabbard? Non sembra proprio. Magari salterà fuori qualcuno all’improvviso e tutto si ribalterà, ma oggi come oggi i Democratici sanno di rischiare di arrivare a novembre prossimo già sconfitti in partenza. Non basta piazzare governatori in Kentucky e Virginia, bisogna far fuori Trump.