MINNEAPOLIS – 25 maggio 2020, un giorno qualsiasi in un mese qualsiasi nell’anno del Covid, l’anno più misterioso della nostra esistenza, quell’anno che sembra essere volato via, in cui sembra non essere successo nulla. Quando George Floyd morì su un marciapiede di Minneapolis davanti a “Cup Food”, quel minimarket da quattro soldi, ero appena arrivato in Minnesota. Le manifestazioni e purtroppo anche i disordini che si generarono per quella morte immediatamente giudicata come l’ennesima manifestazione di violenza gratuita della polizia verso le minoranze, non si erano visti dai tempi del pestaggio di Rodney King nella Los Angeles del ’91, o forse addirittura dalle battaglie per i diritti civili degli anni 60. Scontri, incendi, saccheggi… Minneapolis così abitualmente vibrante di vita si trasformò in un campo di battaglia. E così tante altre città in giro per il paese.
Cos’era successo? Cosa aveva fatto Floyd? Si parla del tentativo di comprare un pacchetto di sigarette con un biglietto falso da 20 dollari, della chiamata e dell’intervento della polizia, di un confronto degenerato. Aver pagato un pacchetto di sigarette con la vita è certamente un prezzo troppo alto.
È passato quasi un anno e siamo al processo. Lunedì i 15 giurati hanno cominciato ad ascoltare le tesi di accusa e difesa, per poi passare ai testimoni, i tanti che hanno assistito e filmato quegli interminabili minuti di violenza. Violenza eccessiva, come sostiene l’accusa, dettata solo dal fatto che si trattava di un uomo di colore. Violenza commisurata alle circostanze, sostiene la difesa, ma resa letale dalle precarie condizioni di salute di Floyd e dal suo uso di droghe. Quindici giurati: nove bianchi, quattro African American come era George Floyd, due di razza mista. Nove donne, sei uomini, tutti tra i 20 ed i 60 anni. Sul banco degli imputati Derek Chauvin, l’ex poliziotto bianco accusato di aver ucciso Floyd, quarantasei anni, soffocandolo, schiacciandogli il collo sotto il suo ginocchio con una presa durata oltre 8 minuti. E rivelatasi fatale.
Guardi le immagini di Chauvin e ti sembra di vedere lo stereotipo del poliziotto “cattivo”, con la sua carnagione più che bianca, i capelli chiari tagliati a spazzola, lo sguardo freddo, quasi un modello per Cesare Lombroso e la sua teoria del criminale nato… Ma come sarà davvero quest’uomo? Cosa avrà dentro di sé? Possiamo sapere, possiamo vedere quel che Chauvin ha fatto, ma non potremo mai sapere cosa gli girasse davvero per la testa e per il cuore mentre pressava il suo ginocchio sul collo di Floyd.
Il processo improvvisamente risveglia ciò che sembrava precipitato nell’oblio della dimenticanza. La memoria di quel che successe quel 25 maggio e di tutto il social unrest che ne conseguì tornano davanti agli occhi e riaprono una ferita nel cuore profonda ed incurabile. Nel cuore di tutti, perché che la si pensi in un modo o in un altro, lo stato delle cose non cambia ed un processo – qualunque ne possa esserne l’esito – non soddisferà mai la nostra sete di giustizia. La sentenza che verrà potrà avere il sapore di rivalsa, o magari di vendetta, o forse finirà per suscitare ancora più rabbia. Magari porterà a qualche nuova norma o disposizione, o addirittura a una revisione radicale dell’ordinamento di tutta la polizia, ma dubito che possa aiutarci a cambiare come ci guardiamo e come ci trattiamo. La giustizia di una sentenza è necessaria, ma non basterà mai. Non c’è tribunale che possa darci Giustizia.
Nei giorni successivi alla morte di Floyd, mentre Minneapolis era messa a fuoco e fiamme, travolta dagli scontri tra rivoltosi e forse dell’ordine, l’unico angolo intoccato, come fosse un luogo sacro era quel punto tra la 38th Street e Chicago Avenue, proprio davanti a “Cup Food”. Una barriera di fiori a difenderla, come a proteggere ed affermare la sacralità della vita di ogni essere umano.
Una fragile barriera di fiori che sa molto più di giustizia di qualunque sentenza.
God Bless America!
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