Il Corriere della Sera ha pubblicato nei giorni scorsi un articolo oltremodo interessante: la storia di una ricercatrice italiana che lavora negli USA dal 2009 la quale, pur considerandosi “progressista e radicale”, lamenta l’aperta discriminazione razziale che subisce nella sua università (Columbia University) perché bianca e quindi “oppressiva”. Emerge un quadro sconcertante di quella che è una nuova realtà non solo americana, ovvero che — a forza di “politicamente corretto” — anche chi non ha minimamente idee razziste viene ghettizzato perché bianco e quindi formalmente discriminante rispetto ad una minoranza (nera, ma anche per gusti sessuali come le varie sigle LGBTIQ+) che di fatto impone la propria predominanza. “Per le prove di ammissione — racconta l’intervistata — ho dovuto scrivere un saggio in cui anticipavo quale sarà il mio impegno nel razzismo anti-black, perché è un dogma che il vero razzismo è solo quello di noi bianchi contro i neri”.
Se riflettiamo per un attimo, ci accorgiamo che questa cultura della minoranza che si impone alla maggioranza e la costringe a comportarsi di conseguenza è sempre più diffusa anche da noi. Succedeva già decenni fa, quando a scuola una minoranza obbligava tutti a scioperare e chi dissentiva era automaticamente “fascista” (chi ha vissuto i primi anni di CL se lo ricorda benissimo) e quindi non è certo una novità, ma oggi ogni gesto può essere interpretato in modo decontestualizzato e quindi “razzista”, mentre si è aperto un dibattito perfino sul bacio sulla testa di Biden alla Meloni che peraltro, effettivamente, è stato segno di poco rispetto verso la premier italiana (fantastico Fiorello che ha commentato “E poi Biden ha salutato la presunta nipotina e chiesto quando arrivava il premier italiano”) .
Ma al di là dei singoli episodi, sta crescendo una paura assurda di apparire non solo conformisti, ma in qualche maniera discriminatori, anche se non se ne ha assolutamente l’intenzione. Tutto questo dovrebbe fare riflettere sulla importanza che hanno assunto i media e i social nel condizionare i gusti, le reazioni, i commenti, dove la sinistra è “aperta” e quindi sinonimo di “bene”, e chi si comporta in modo pur assolutamente corretto ma tradizionale è “destra” e quindi “male”. Il predominio di alcune minoranze politiche e sessuali è evidente dalla cultura alla rilettura della storia, all’abbattimento dei monumenti (negli USA ormai una quotidianità) perché considerati razzisti, alla cancellazione del “Columbus day” colonialista, alla richiesta di sovvenzioni, indennizzi, riconoscimenti culturali, premi, tutti che siano però assolutamente “in linea”. Personalmente non ho nulla contro i gay ma appare evidente, ad esempio, il peso sociale, politico, televisivo, mediatico che questa ed altre minoranze di orientamento sessuale hanno nel dibattito pubblico, dove l’ex discriminato è ora spesso discriminante.
Così, si legge – tornando al Corriere – che in una delle più prestigiose università del mondo per accedervi “Nella prima settimana agli studenti bianchi è chiesto di scusarsi con i compagni di corso neri per il razzismo di cui siamo portatori”, oppure che ogni due settimane una bianca deve partecipare a una riunione di White Accountability (“responsabilità bianca”): due ore per far riconoscere le micro-aggressioni verso i neri e chiedere un pentimento. E quali sarebbero queste mini-aggressioni? “C’è un lunghissimo elenco di frasi proibite, perché considerate offensive. Per esempio, non bisogna mai chiedere a un compagno di studi da dove viene: può considerarsi un’implicita discriminazione etnica, oppure chiedere il corso di studi perché se lo studente è nero può evocare una piantagione di cotone dove lavoravano i suoi antenati schiavi, o se è di origini messicane un terreno agricolo dove suo nonno era bracciante”.
In parallelo, mentre i bianchi partecipano a queste sessioni di auto-denuncia e pentimento, gli afroamericani si riuniscono nel Black Women o Black Men Safe Space (“spazio sicuro”): “È il momento a loro riservato per denunciare le micro-aggressioni di noi bianchi, e mettere sotto accusa la Columbia se non affronta in modo adeguato il privilegio bianco, il razzismo sistemico” perché secondo l’università “il trauma generazionale è quello ereditato da chi discende da schiavi neri”.
Ci sono poi le questioni politiche che hanno avuto anche un largo seguito sui media e discriminazioni anche dal punto di vista religioso, per esempio verso gli ebrei a seguito della crisi di Gaza. La regola è che gli ebrei ashkenaziti, di origine est-europea, sono bianchi quindi oppressori, gli ebrei sefarditi di origine mediorientale hanno invece il diritto a stare nella categoria degli oppressi. Il caso di Harvard dove la rettrice Claudine Gay ha dovuto dimettersi per discriminazioni verso studenti ebrei non è evidentemente un caso isolato.
Ma c’è un altro aspetto che porta ad altri problemi: le reazioni a volte violente di chi non accetta tutto questo. Uno dei motivi per cui Trump trova spazio con le sue provocazioni è proprio perché una parte dell’opinione pubblica americana (bianca, ma non solo) si sente discriminata. A volte immaginiamo che i wasp (americani bianchi, anglosassoni e protestanti) siano ancora la maggioranza negli USA, ma non è più così, come è vero che moltissimi bianchi guadagnano meno dei neri e si sentono defraudati dei sacrifici loro e delle generazioni precedenti. Un vasto bacino elettorale per Trump e che poi trova spazio per episodi come quelli di Capitol Hill. Un motivo in più perché gli USA si sentano sempre più divisi al loro interno, nella politica come nella società.
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