NEW YORK – A qualcuno potrà sembrare strano, ma la prima impressione sbarcando a New York è la conferma di un Paese in declino, arretrato, vecchio.
Vecchie le procedure di ingresso, l’aeroporto, i vagoni della metro, i ponti delle ferrovie, le corsie delle autostrade ormai sottodimensionate rispetto alle necessità.
Vecchia la gente, i quartieri sporchi con troppi “modelli Scampia”, il degrado che attanaglia la metropoli. Certamente Manhattan e i quartieri-bene delle villette unifamiliari con giardino non sono così, ma è per sottolineare come gli USA non sembrano più quel modello vincente di sviluppo e di integrazione che era l’America di quando, da ragazzi, sbarcavamo dal volo transoceanico con gli occhi spalancati e tutto ci appariva grandioso.
Fu nella Grande Mela che nel 1985 vidi il mio primo computer operativo alla reception dello Sheraton in 7th Avenue, i taxi gialli che sembravano immensi con quei cofani ed i bagagliai enormi rispetto alle nostre microscopiche auto europee.
A parte che oggi un tassista di origini nordamericane è impossibile trovarlo, che lo spagnolo ha conquistato anche il Nord-Est ed ha imposto tutti i cartelli bilingue, per trovare qualcosa di americano doc che non sia cambiato devi annusare l’aria che esce dai condotti della metropolitana o alzare gli occhi al cielo, chiuso tra i palazzi che erano una quasi esclusiva di New York e oggi sono dappertutto. Ma è comunque cambiata la gente, che è ormai un miscuglio incredibile di razze, in cui i WASP (bianchi anglosassoni protestanti) sembrano una piccola minoranza. Ti circonda piuttosto una folla sformata dall’obesità con epidermidi di tutte le gradazioni e vestita nei modi più trash, mentre ascolti lingue di tutto il mondo.
Detto questo, ovvero sparate fuori le negatività della prima impressione, ritrovi poi la città multietnica e caotica di sempre, con il suo richiamo particolare, e cuore di una società che attende sconcertata più che preoccupata il 5 novembre. Uno dei problemi sul tappeto è però proprio quello dell’arretratezza tecnologica ed infrastrutturale con cui viene a confrontarsi un’America che in questo sta anche peggio di noi.
Un tema importante, dibattuto, che non è “colpa” di questo o quel presidente, ma forse di una intera comunità che ha dato per scontato di essere per sempre al centro e alla guida del mondo e che invece (come noi) rischia di ritrovarsi ai margini.
Ho negli occhi visite recenti a Singapore, a Bangkok, in Cina… non c’è paragone: il futuro è laggiù, in Asia, non qui.
A cascata crescono così le insicurezze, i dubbi, le accuse reciproche tra due candidati alla presidenza che non convincono nessuno a parte i rispettivi aficionados, e con l’impressione, subito rafforzata, che se i repubblicani avessero messo in campo qualsiasi altro candidato minimamente credibile avrebbero vinto alla grande e invece rischiano di perdere, vista l’antipatia che Trump ha profuso per anni a piene mani.
Tanto per essere chiari: vinceranno i democratici solo se i loro elettori (che in buona parte non amano la Harris) andranno comunque a votare in termini anti-Trump, altrimenti la partita è persa e la minoranza rumorosa dei trumpiani conquisterà una vittoria nata soprattutto sulle incapacità altrui. questo In tv correvano in questi giorni le immagini del tornado in Florida e il governatore Ron DeSantis era in tutti i tg: ecco un repubblicano che avrebbe vinto facile.
Ma torniamo a questi States che hanno perso il loro slancio, un aspetto evidente soprattutto vedendo chi sono i nuovi americani.
Oggi le tendenze transgender, l’esasperato “mea culpa” razziale, tutte le ipocrisie che stanno attaccate a larghe componenti del mondo vicino ai democratici stanno esplodendo (con un conseguente cedimento verso Trump di molti indipendenti) proprio perché il nuovo “deal” americano non è più quello dei suoi cittadini originali, ma di nuove ondate immigratorie che stanno condizionando il Paese. Sono gli indiani (dell’India) a pullulare, i caraibici, i sudamericani e non più quegli italiani o irlandesi che arrivavano poveri ed ignoranti, ma con il passaporto in mano e decisi a conquistarsi con volontà uno spazio e una pagnotta, ma soprattutto di sistemare i figli nella nuova patria americana.
Questa più recente ondata immigratoria non solo è molto più massiccia, ma conserva tutti i contatti con i Paesi d’origine e non solo la nostalgia degli spaghetti al pomodoro. Gli immigrati europei avevano comunque molte cose in comune con gli americani, queste nuovi venuti invece hanno (e mantengono) costumi, religioni, culture (e non solo cucine) profondamente diverse e variegate… e sono tantissimi.
Restano collegati al villaggio di partenza, sempre raggiungibile 24 ore al giorno via whatsapp, non si chiudono così i legami di quando una lettera ci metteva magari un mese ad arrivare e, a casa, spesso era letta prima dal parroco. I nuovi arrivati degli ultimi decenni si sopportano, ma quando diventano regolari (dopo molti sacrifici) sono i più grandi nemici di chi viene dopo di loro: una concorrenza che nasce dal bisogno, dalla paura, dall’insicurezza in una società dove a parte pochissimi il grosso non sta vivendo molto bene, stretto in una crisi economica e un’inflazione che è palpabile per chi manca da un po’ di tempo.
Aspetti che esplodono soprattutto in una campagna elettorale dove non votano gli ultimi arrivati ma i penultimi e che – secondo i sondaggi – sono con Trump, il che appare davvero un paradosso.
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