NEW YORK — Domenica sera ho guardato la cerimonia degli Oscars. Come sempre ogni anno. Per capire a che punto siamo nella vita del nostro Paese si fa prima con la liturgia degli Oscars che con i risultati delle primarie o le narrazioni sullo Stato dell’Unione. A Los Angeles si comincia con Billy Porter, una sorta di attore, (tra)vestito da donna, con un corpetto d’oro e una gonna dal disegno imprecisato che sembra una mongolfiera. Sfilano tutti sul red carpet, l’autostrada della vanità e delle anime perse che si muovono in un verso o in un altro seguendosi a vicenda come fanno le formiche. Sono solo contento che non conosco quasi nessuno dei protagonisti di questo spettacolo del nulla. Lo prendo come un segno di sanità (mia).

E a proposito di sanità, l’unico sprazzo di vita della serata arriva dal personaggio più “insane” del branco, Joaquin Phoenix. Nel ricevere l’Oscar come migliore attore protagonista, con parole sconnesse, mostrando visibilmente tutta la sua fragilità, dopo una serie di precarie dichiarazioni ambientaliste, Phoenix ha aperto uno spiraglio sulla sua anima. Ha confessato di aver fatto tante porcherie nella vita, ma ha anche temerariamente detto nel tempio di quella realtà virtuale che si chiama Hollywood che è grato perché è sopravvissuto. Qualcuno l’ha aiutato. Quest’uomo ha visto, ha sperimentato che è possibile aiutarsi, sostenersi a vicenda, guidarsi in un cammino di redenzione. Questa la parola che ha usato, redenzione, strapparsi dall’infelicità.

Phoenix mi ha fatto pensare al nostro New York Encounter che comincia venerdì sera. Non al Dolby Theater di Los Angeles, ma al Metropolitan Pavilion di New York (in caso foste da queste parti). Il Pavilion non è cosi bello “fuori” come il Dolby, ma credo proprio che da venerdì sarà molto più bello “dentro”. Non che avessi bisogno del protagonista di Joker per farmi venire in mente che venerdì apriamo, ma Phoenix è come se mi avesse ricordato cosa sia il New York Encounter per me. Per me e, God willing, per tutti quelli che con esso hanno a che fare, da chi lo taglia e cuce tutto l’anno agli oltre 400 volontari, a chi ci capita per caso.

“Al giorno d’oggi viviamo come chiusi nel guscio dell’ideologia. Questo ci divide dalla realtà, da l’un l’altro, da noi stessi”. Cosi comincia lo statement che accompagna il tema di quest’anno, “Crossing the Divide”, attraversando la divisione. La grande, tragica protagonista di questi tempi che domina tutti i campi dell’operare umano, ma anzitutto prende possesso di noi, ci spacca dentro. Anche se sappiamo di essere fatti per altro. Ecco, a modo suo, col dolore e i tormenti suoi Phoenix mi ha ricordato che io sono il primo ad avere bisogno di redenzione, ad aver bisogno di un padre, di una madre, un fratello che mi strappino dal solco della divisione, mi strappino dalla solitudine e dalla inevitabile infelicità che ne deriva.

Come scriveva T.S. Eliot, “Cos’è l’inferno? L’inferno è te stesso. L’inferno è solo, le altre figure in esso sono solo proiezioni. Non c’è nulla da cui fuggire e nulla a cui fuggire. Uno è sempre solo”. È possibile superare i profondi solchi di questa divisione? È possibile tener vive le domande vere sul senso di tutto senza che l’ideologia se le mangi?

Il mondo sembra proprio dirci di no, ma il cuore non si stanca di ripeterci di sì. E un piccolo popolo a New York City gli fa eco.

God Bless America, and God Bless the New York Encounter!