MINNEAPOLIS – Stephen Breyer si è ufficialmente dimesso. Il più anziano (83 anni) “Justice”, insediato da Clinton nel 1994, ha deciso che è ora di smettere. E ha scelto di farlo ora. Uno dei 9 seggi della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, la più alta corte nel sistema giudiziario americano, l’ago della bilancia delle grandi decisioni che segnano valori, usi e costume di questo Paese, si rende vacante e chiama Biden al difficile compito di trovare un adeguato rimpiazzo.



Compito difficile nella pratica, non nelle intenzioni. Le intenzioni – Biden lo ha già detto a chiare lettere – sono quelle di nominare una donna di colore. Liberal, come sempre è stato solidamente Breyer nei suoi quasi trent’anni di servizio trascorsi lontano dalle luci della ribalta. Nessuno può impedire a Old Joe di compiere questo passo. La “nomination“, come abbiamo visto in tempi recenti con Trump, spetta al Presidente. Ma per la conferma occorre la maggioranza in Senato. E per quanto sia richiesta una maggioranza semplice, la strada per Biden appare in salita perché il Senato è proprio spaccato a metà.



Kamala Harris, la vicepresidente “invisibile”, deterrebbe il “tie-breaker vote“, ma i democratici hanno già mostrato gravi difficoltà nell’unirsi compatti dietro alle proposte del Presidente. E in ogni caso se vogliono riuscire a mettere un liberal al posto di Breyer devono sbrigarsi, perché le Midterm Elections di novembre potrebbero ribaltare gli equilibri in Senato, restituendo la maggioranza ai Repubblicani. A quel punto nominare un “progressista” diventerebbe per Biden (quasi) impossibile.

Questo plausibile scenario ci fa tornare un momento alla scelta fatta da Breyer di dimettersi proprio ora. Una scelta certamente “politica”. Avete presente quanto conti la Corte Suprema? Avete presente che a prescindere dal voto degli americani, dai parlamentari mandati a Washington a rappresentare tutto il Paese, a prescindere dal Presidente che viene eletto, c’è un gruppo di nove personaggi che ci dicono quel che è legittimo e quel che non lo è? Cambiano i Presidenti, cambiano le maggioranze parlamentari, cambia la mentalità e il pensare comune, ma loro restano. Nove personaggi  che siedono sulla loro poltrona finché il Padreterno li tiene in vita. A meno che – rarità – non decidano di dimettersi.



Così sta in piedi il nostro sistema di checks and balances, il nostro tentativo di equilibrio politico. Chi può sapere quando scoccherà l’ora del ricambio? Trump ha avuto la possibilità di scegliere tre Justices (Gorsuch, Kavanaugh e Coney Barrett), Obama ne piazzò due, così come G. Bush e Clinton. Ronald Reagan quattro. Oggi come oggi abbiamo una Corte considerata “seriamente conservatrice”, con una presunta maggioranza di 6 a 3. E di vecchietti tra questi giudici conservatori non ce ne sono e nessuno si aspetta dimissionari, per cui è possibilissimo che la presidenza Biden vada completamente in bianco dal punto di vista dell’incidenza sulla Corte. Anzi – e qui torniamo al possibile ribaltamento del Senato con le elezioni d’autunno – se Breyer avesse temporeggiato ancora, i democratici di proporre un nominee liberal tra qualche mese probabilmente non se lo sarebbero potuti neanche sognare. Scelta politica.

Certo che sembrano molto lontani i tempi in cui Bill Clinton, Presidente, si rivolgeva a Orrin Hatch, il repubblicano più autorevole del tempo, chiedendo consiglio su chi nominare alla Corte Suprema. Hatch gli fece due nomi: Ruth Bader Ginsburg e Stephen Breyer. Altri tempi.

God Bless America!

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