Il pensiero corre ai grandi romanzi di Alexandre Dumas sui moschettieri invecchiati (Vent’anni dopo; Il visconte di Bragelonne), osservando il primo dei dibattiti presidenziali dopo quattro anni di presidenza Trump (quattro anni, per ogni presidente in Usa, possono sembrare venti). Dopo vari duelli che hanno sgombrato il campo, i nostri moschettieri sono rimasti due: e il passaggio del tempo naturalmente non perdona. Il volto di Trump è ispessito, e scolpito con durezza; quello di Biden invece è fragile e pergamenaceo (quest’ultimo è il solo che abbandona per una manciata di secondi la rigidità della postura per passarsi la mano, fra la giacca e la camicia, sulla spalla sinistra; gesto che è notato dall’esegesi crudele della macchina da presa; e potrebbe destare – augurandosi che sia un allarme esagerato – qualche preoccupazione).



Questi dibattiti in effetti non sono particolarmente utili per i loro contenuti (è aria fritta e rifritta, dopo tanti mesi di campagna elettorale): quello che essi rivelano è l’aspetto umano-troppo-umano del discorso politico. La statura, per esempio: è una legge non scritta delle campagne elettorali americane per almeno l’ultimo mezzo secolo, che il candidato presidenziale debba essere alto (più di un metro e ottanta) così che possa adeguatamente torreggiare sul podio, e fra gli altri capi di Stato nelle foto di gruppo; e i due candidati obbediscono alla legge.



In realtà, quello che il popolo americano vuole percepire (anche se, necessariamente e giustamente, desidera convincersi di essere concentrato sui problemi di fondo, i famosi issues) è, per così dire, la pelle del discorso: le espressioni del volto, i gesti, le cadenze e intonazioni; le sfumature che continuano a risultare essenziali. Ogni dettaglio conta, non tanto per un punteggio di “più” o di “meno”, quanto perché questo è il solo modo di sentire con chi si avrà a che fare nei prossimi quattro anni.

Per esempio, l’accento; e l’inglese americano non è più monolitico di quello che sia ogni altra lingua. Ovviamente i due candidati parlano una lingua standard e colta. Ma c’è una serpeggiante differenza fra questi due uomini del Nord-Est: in Trump emerge il disinvolto accento newyorchese; e in Biden affiora – raramente, sottilmente – qualcosa di diverso, qualcosa che non può non appartenere alla sua nativa Pennsylvania.



Tutto ciò non è (vale la pena di ribadire) puro folklore; e nessun paese cosiddetto democratico del cosiddetto Occidente può permettersi di guardare con sufficienza a questi dibattiti. Tanto meno l’Italia: dove lo stato di diritto è continuamente periclitante, e la malavita organizzata affligge vasti settori del territorio e dissangua ampi settori dell’economia; dove certe cariche appartengono istituzionalmente ai non-eletti, dove da vari anni si attendono invano elezioni, dove dibattiti come questi sono virtualmente inconcepibili; così che ogni osservatore italiano, compreso il sottoscritto, di fronte a questi duelli, anche nei loro momenti beceri (che certo non sono mancati, in quella prima serata), non può che tacere e prendere appunti. Anche perché il popolo, che negli Usa come in ogni altro luogo del mondo non è bue (e chi se ne scorda, finisce sempre con l’accorgersene, a sue spese), sotto la pelle dei discorsi percepisce sempre quello che conta, cioè chi offra migliori garanzie di sapere amministrare il potere. E lo fiuta anche dietro le maschere un po’ troppo fisse dei due oratori: Biden che continua a sorridere con aria incredula, rivolto agli uditori, come a dire “Ma che cosa sta a di’, questo?”; e Trump che non può non differenziarsi, e comunque sa che il sorriso non è il suo punto forte, dunque ha un’aria perennemente accigliata.

Ciò potrebbe condurre alla questione piuttosto oziosa: chi abbia vinto questo dibattito, o chi vincerà i seguenti. In realtà, nessun singolo dibattito è vinto o perso (si tratta di un processo incrementale): quella che si vince, quando si saprà (e quando, si saprà?), è l’elezione a presidente.

Detto ciò, l’osservatore può (deve) prendersi la responsabilità di identificare quelli che a suo parere sono i punti vincenti. Ma prima, i punti bassi. Tra questi, nella serata del 29 settembre (è soltanto una scelta fra molti): Trump che esclama “Tu certe cose proprio non ce le hai nel sangue”; Biden che se ne esce con il solo vero insulto della serata, esclamando: “È impossibile riuscire a infilare dentro anche una sola parola, con questo pagliaccio”. Meglio, allora, salire un po’ di livello, e concentrarsi sui punti vincenti.

Joe Biden che concentra quasi sempre lo sguardo di fronte a sé (mentre Trump continuava a guardare o lui o l’intervistatore), imitando efficacemente un contatto diretto con la gente (anche se a volte assomigliava un po’ troppo a quel famoso manifesto in cui lo zio Sam con la barbetta scruta chi lo guarda ed esige, a indice puntato, la sua attenzione); Biden che risponde nobilmente all’inevitabile attacco contro suo figlio.

Donald Trump che fa il mimo (e allora quel “pagliaccio” detto da Biden poteva anche essere espressione di un po’ di invidia) formulando a un certo punto in silenzio – lettura delle labbra – la frase “Non è vero”, mentre l’avversario parla; Trump che menziona senza peli sulla lingua (e quando mai li ha avuti?) la “peste cinese” a proposito dell’eufemistico Covid, così anticipando il dibattito di politica internazionale e stornando per qualche momento (ogni momento conta) l’attenzione dai propri errori nella gestione della pandemia; Trump che martella continuamente sulla frase “quello che tu, Joe, non sei riuscito a fare in 47 anni”, così trasformando in svantaggio dell’avversario quello che poteva essere un vantaggio, cioè la sua lunga carriera politica; Trump che non solo insiste com’è prevedibile sulla frase “Legge e ordine” (su cui gli osservatori italiani, come detto, farebbero bene a non ironizzare), ma a un certo punto sfida Biden a ripeterla, questa frase semplice semplice – e Biden non la riprende, così aprendo il fianco all’inevitabile stoccata: “Tu queste parole non le puoi neanche dire, se no perderesti l’appoggio dei radicali”. Questo è il guizzo che conta, e che resta.

Fra i molti libri di un ex-collega di Yale, Fredric Jameson, ancora modello dei critici post-/neo-/marxisti contemporanei, ce n’è uno che risale al 1981 e che ha un titolo significativo: L’inconscio politico. Inutile (soprattutto dopo tutti gli sparigli di Lacan) definire che cosa sia “l’inconscio”. Ma tutti noi sentiamo la presenza interiore di un’area che non è quella della più lucida ragione, ma nemmeno è qualcosa di indicibile, incomprensibile, irrilevante. Il linguaggio politico parla a questa regione intermedia, che influisce decisivamente sulla vita sociale; ed è per questo che i dibattiti appena iniziati continuano ad avere un senso.