Hanno scoperchiato il pentolone della litigiosità fra i partiti le elezioni amministrative, e pure i protagonisti faticano a orizzontarsi. Troppi schemi opposti si fronteggiano, con l’effetto di un grande caos, a meno di 90 giorni dalla madre di tutte le battaglie, quella per scegliere il prossimo presidente della Repubblica.
In questo guazzabuglio Mario Draghi continua imperterrito la sua azione di governo, incurante delle critiche, da qualunque parte vengano. Sembra avere in mente l’errore di Dini e Monti l’ex numero uno della Bce: non perdere lo slancio iniziale, perché un governo straordinario se rallenta è perduto. Lui, per di più, ha un mandato preciso: agganciare saldamente l’Italia al treno della ripresa europea e, va detto, sin qui sembra esserci riuscito. Di fatto, Draghi sta agendo da commissario su almeno due livelli: commissario dell’Europa per gestire l’Italia e, allo stesso tempo, commissario della politica italiana in crisi profonda, nel mezzo della più sgangherata legislatura repubblicana.
Il Pnrr è la stella polare di Draghi, che non ammette deviazioni. Ha la forza politica per imporre la sua linea anche agli alleati più riottosi. Matteo Salvini ha più volte assaggiato il metodo del premier: ascolto, spiegazione delle scelte, correzioni minimali (giusto per non far perdere del tutto la faccia all’interlocutore), poi avanti, verso il prossimo problema da risolvere. Un paio di volte la Lega ha tirato la corda sino all’astensione (sul coprifuoco a maggio e sulla riforma fiscale a inizio ottobre), ma di fatto non è successo niente. Gli altri partiti si sono fermati molto prima.
Non è che di fronte al governo i problemi siano assenti. Si pensi alla grana della vendita di MontePaschi a UniCredit saltata, o all’impennata imprevista del prezzo dell’energia e alle sue conseguenze sociali. Eppure l’azione dell’esecutivo macina provvedimenti. C’è da scommettere che succederà anche sulla riforma delle pensioni, con l’archiviazione di “Quota 100”, e sulla riscrittura del reddito di cittadinanza.
La settimana dell’approvazione della legge di bilancio (giovedì in Consiglio dei ministri) si apre con la minaccia fatta trapelare da Palazzo Chigi di congelare gli otto miliardi previsti per il taglio delle tasse, se i partiti saranno incapaci di raggiungere un accordo. Congelarli, per decidere più avanti in Parlamento come distribuirli.
Un premier che arriva a tanto non può che essere il vero arbitro della corsa al Quirinale. Alla fine dovrà essere lui a decidere da quale posizione ritiene più utile continuare la sua opera. Il rischio altrimenti, lo ha spiegato Bettini, è lo “sfortunato combinato disposto”: Draghi che non va al Quirinale, ma il suo governo cade egualmente subito dopo. Pure nel Pd, sinora contrario alla salita al Colle, si comincia a ragionarne. Agli spaventatissimi 5 Stelle basta molto meno, basta la garanzia che non si vada a elezioni anticipate.
Sempre a Draghi toccherebbe comunque l’onere di indicare la soluzione in grado di portare la legislatura alla sua fine naturale della primavera 2023. Circolano in merito diverse ipotesi. Due sono tecniche, Marta Cartabia e Daniele Franco, ma sembrano troppo deboli per reggere, anche con il poderoso ombrello di un Draghi capo dello Stato.
C’è anche un’ipotesi più politica che avrebbe senso, quella di Giancarlo Giorgetti, il più draghiano dei ministri, e non solo di quelli della Lega. Se il tentativo del Pd di scaricare Salvini e i suoi dovesse essere respinto (e tutto fa pensare che sarà così), Giorgetti ha dalla sua tanto una consolidata sintonia con il premier, quanto vasti rapporti trasversali interni e internazionali, affinati da ultimo questa settimana con un importante (anche se poco sbandierato) viaggio a Washington, che pare ben riuscito nell’intento di accreditare se stesso e il proprio partito agli occhi dell’establishment a stelle e strisce. Un viaggio che non può non aver avuto la benedizione di Palazzo Chigi.
Se fosse Giorgetti il prescelto di Draghi, gli altri partiti potrebbero solo contrattare qualche compensazione. Salvini dovrebbe fare buon viso a cattivo gioco, moderare i toni e allinearsi in Europa al Ppe. Potrebbe non essere un male. Del resto dagli Usa Giorgetti ha spiegato che per la Lega il governo Draghi è un investimento a lungo termine.
Fantapolitica? L’ipotesi circola, ed è meno strampalata di quanto possa apparire a prima vista. Non resta che attendere, in tre mesi possono succedere un sacco di cose.
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