Giuseppe Conte ha perso il tocco magico. È diventato un Re Mida al contrario, qualunque cosa faccia nessuno si fida più di lui. Fra i tanti dati inquietanti di questa fase della pandemia, questo “momento Renzi”, come descritto proprio qui sul Sussidiario, è fra i più preoccupanti. La riprova si è avuta nella travagliatissima gestazione del nuovo Dpcm, che dovrebbe veder la luce stasera, a meno di ulteriori colpi di scena.



L’impennata della malattia avrebbe imposto scelte tempestive, invece il governo ha esitato e ha perso giorni preziosi. Palazzo Chigi ha deciso di cambiare strategia rispetto a marzo, diversificando la severità delle restrizioni sulla base dei differenti livelli di contagio. Ma quelle stesse regioni che avrebbero salutato con favore questo approccio in occasione del primo lockdown hanno fatto fuoco e fiamme per regole uguali per tutti, in un avvitarsi pirandelliano della trattativa.



Colpisce soprattutto l’asse fra il sindaco democratico di Milano, Beppe Sala, e il presidente leghista della Regione Lombardia, Attilio Fontana. Uniti nel rifiutare un lockdown totale della locomotiva d’Italia. Fra Milano e Roma circola una spiegazione spiazzante: Sala e Fontana hanno avuto il sospetto che alla fine Conte intendesse chiudere solo la Lombardia. Bruciano ancora le prime zone rosse imposte a marzo (e quelle non imposte in Val Seriana), e l’invidia sociale, che per mesi ha dipinto i lombardi come untori. Di fronte alla prospettiva di essere gli unici a pagare, la resistenza opposta alle intenzioni del governo si è trasformata in una specie di linea del Piave. E se differenziazione sarà, la resistenza avrà almeno consentito di inserirla in una cornice nazionale capace di allontanare la puzza di fregatura.



Uno scontro istituzionale salito sino a questi livelli ha fatto accendere l’allarme rosso persino al Quirinale, sceso in campo con un’offensiva a tre stadi per cercare di evitare che la contesa politica finisse fuori controllo. Nottetempo Mattarella ha escogitato l’idea di un blitz in terra lombarda, nel Bresciano flagellato dal Covid, per lanciare un fortissimo richiamo ad accantonare ogni tipo di partigianeria e di egoismo. Secondo stadio, il colloquio con il presidente ed il vice della Conferenza delle Regioni, Bonaccini e Toti, perché con 14 regioni su 21 in mano al centrodestra il governo si trova in difficoltà. Terzo elemento dell’offensiva quirinalizia, il colloquio fissato per oggi pomeriggio con il presidenti di Senato e Camera, Casellati e Fico, alla ricerca di quel dialogo fra maggioranza ed opposizione che da inizio pandemia a oggi è totalmente mancato.

La moral suasion sfoderata dal Capo dello Stato ha due diversi piani di lettura: se da un lato rappresenta un puntello al governo (meglio questo governo che il vuoto di potere, è trapelato dal Colle nel giorni scorsi), dall’altro per Conte significa un duro richiamo a cambiare passo, a essere il primo a fare passi concreti di unità e di condivisione delle scelte.

In Parlamento il premier ha ripetuto l’offerta di un tavolo di discussione, rimediando l’ennesimo no dal centrodestra. Come segno di buona volontà, la maggioranza ha votato quatto proposte contenute nella mozione dell’opposizione. Ed è la prima volta da febbraio a oggi.

Non è che al centrodestra sia mancato il senso di responsabilità: ha votato a favore del primo dei tre scostamenti di bilancio chiesti dall’esecutivo, astenendosi sugli altri due. Ma è evidente che creare le condizioni per fare un passo in più tocca soprattutto a Conte. Ci sono regole ferree nella politica: se sei in difficoltà, e hai bisogno di aiuto, devi scendere a patti, devi pagare un prezzo politico. Se hai bisogno dei voti dell’opposizione in Parlamento (anche in vista della legge di bilancio) e se vuoi un atteggiamento più morbido delle regioni, devi fare accordi. Una voce incontrollata che circola riferisce della richiesta del centrodestra di fissare le elezioni politiche in tarda primavera 2021, prima del semestre bianco di Mattarella. Sarebbe un prezzo alto da pagare, ma sorprenderebbe solo le anime candide.

Manca oggi la legittimazione dell’avversario. La rottura del 2019 fra Conte e Salvini ha aperto ferite non ancora rimarginate. Smetterla con la demonizzazione, e aprire una discussione sul dopo sarebbe un primo passo. Sarebbe un bene per il paese.