Il “toto-Quirinale” è cominciato da tempo. Non c’è da stupirsi, perché è un rito che accompagna gli ultimi mesi di ogni settennato. Si vagliano tutte le ipotesi, si soppesa la disponibilità di Mattarella ad iniziare un nuovo mandato, almeno fino alla fine dell’attuale legislatura; si misura la convenienza di Draghi a traslocare al Colle, rispetto alle probabili elezioni, al Recovery Plan e agli obiettivi dei suoi “grandi elettori”.
Ma quest’anno sembra esserci qualcosa di diverso. Che un partito pensi di mandare un suo esponente, o un esponente da lui prescelto, al Quirinale fa parte del gioco. È meno scontato che uno o più leader o partiti vedano nel Quirinale l’unica chance rimasta di poter determinare l’indirizzo del sistema politico. Ne abbiamo parlato con Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale nell’Università Cattolica di Milano.
Come si spiega, professore?
Come dice un eccellente collega, Roberto Bin, la forma di governo italiana è un triangolo i cui vertici sono Governo, Parlamento e Presidenza della Repubblica. E questo triangolo non è fisso, ma si trasforma e cambia nel tempo, restando però sempre un triangolo. È quello che si chiama isomorfismo. Quanti triangoli può immaginare, con lati diversi, che restano sempre triangoli?
E qualcosa del genere vale anche per la forma di governo.
Esatto. La Presidenza della Repubblica nel triangolo di oggi ha un ruolo predominante e stagliato diversamente dal passato. Non è un dramma. Semplicemente è cambiato il triangolo.
E come si è arrivati a questo punto?
In via progressiva, con stasi e accelerazioni improvvise. Che però sono sempre dipese dallo sfarinamento del sistema politico costruito sui partiti di massa del dopoguerra. Per capirci, negli anni 70 nessuno si stracciava le vesti se uscivano campagne denigratorie che portavano alle dimissioni di un Presidente. Anzi. Così come ancora ai tempi di Cossiga, e dei suoi messaggi alle Camere, si poteva lamentare un protagonismo eccessivo. In quella fase la Presidenza della Repubblica aveva un profilo non troppo definito rispetto all’asse Governo-Parlamento imperniato sui partiti di maggioranza.
Poi c’è stata Tangentopoli.
E all’improvvisa debolezza del sistema politico ha dovuto fare riscontro, con sempre maggiore consapevolezza, il ruolo del Quirinale. Diciamo che la Presidenza della Repubblica ha finito con il colmare un vuoto, e, per svolgere questa funzione, si è individuata dall’asse Governo-Parlamento e da un sistema politico sempre più conflittuale. Il triangolo, insomma, ha cambiato forma, e il vertice ha finito con lo stagliarsi nettamente dalla base.
Dopo la crisi del ’92-93, che ha distrutto il pentapartito e la prima repubblica, qual è l’altro passaggio storico saliente sotto il profilo del potere del Colle?
Sono stati molti, progressivi e impercettibili. Qualche rifiuto a firmare decreti legge del Governo, ad esempio, ha messo in luce trasformazioni che non sono sempre state capite fino in fondo dalla cronaca politica. Il punto è che questa progressiva individuazione del ruolo del Quirinale è quasi sempre avvenuto con il consenso del sistema politico.
Come mai?
Il sistema politico non si poteva più permettere un conflitto con chi aveva finito con il rivestire una funzione arbitrale che prima non aveva. Insomma, quando il triangolo è cambiato, il notaio era diventato arbitro. E questo, per una ragione o per l’altra, è stato accettato da tutti. I triangoli non solo possono cambiare forma, ma anche ruotare sugli assi.
Ritiene che gli eventi della seconda metà del 2011, con la crisi dei debiti sovrani e gli eventi che si sono susseguiti, abbiano ulteriormente cambiato il profilo del Quirinale?
Lei capisce che quando devi dipendere finanziariamente dall’esterno, dipendi dai tuoi interlocutori esterni. E questi hanno bisogno di interfacciarsi con qualcuno che possa essere un terminale stabile. Se riflette su questo, e mette a confronto quest’esigenza con la durata media di un governo in Italia, ha già la risposta.
Con quali conseguenze?
Sta qui la radice dei discorsi sulle riforme, e sulla stabilità politica, che ci hanno afflitto negli ultimi trent’anni. Diciamo che alla debolezza e alla conflittualità strutturale del sistema politico ha fatto riscontro l’intensificarsi delle relazioni con l’esterno. Da qui la ricerca ossessiva della stabilità attraverso le leggi elettorali. Nel frattempo si è affermata una formula per cui ciò che è contingente spetta al Governo, ciò che deve durare spetta alla Presidenza della Repubblica.
En passant: il Colle è più potere politico o più alta burocrazia?
Non sarei così netto nel distinguere tra potere politico ed alta burocrazia. Sono, semplicemente, due forme di potere che hanno una diversità di legittimazione, sempre che per politico si intenda “parlamentare”. Ma io farei fatica a distinguere.
Quando la presidenza della Repubblica ha assunto il connotato di garante dei poteri esterni all’Italia?
Come le ho detto, quando si è intensificata la dipendenza finanziaria dall’esterno la collaborazione tra Governo e Quirinale si è progressivamente fatta più stretta. L’elencazione dei poteri del Presidente che si trova nell’art. 87 Cost. ai tempi della prima repubblica era al massimo ricognitiva di una serie di tradizioni di governo mutuate dalla forma di stato monarchica. In fondo il passaggio dalla forma di stato monarchica a quella repubblicana ha imposto, nel 1948, un surrogato funzionale.
E questo surrogato è stato trovato nella Presidenza della Repubblica…
Sì. Nel tempo, però, l’art. 87 è diventato il secondo perno della forma di governo repubblicana. A reggere la situazione non c’è più solo la fiducia tra Governo e Parlamento: ci sono anche i poteri della Presidenza della Repubblica, che si dilatano quanto più si restringe il ruolo decisionale degli altri vertici del triangolo. Del resto il potere estero è sempre stato condiviso tra Governo e Quirinale, con una intromissione, in certi casi, del Parlamento. Per capirci, non tutti i trattati internazionali devono passare per le Camere. Questo ci dice l’art. 80 Cost. E lo si ripete continuamente. È che non si capisce bene cosa voglia dire. Da qui molti equivoci.
I recenti sviluppi che riguardano due di questi poteri esterni – Usa e Unione Europea – hanno o non hanno ripercussioni sul potere del Quirinale?
Non in modo diretto. Quel che conta è l’intensità complessiva della dipendenza dall’esterno, e l’ampiezza dei poteri che si possono esercitare all’interno. L’ampiezza di questi poteri condiziona la capacità di interlocuzione all’esterno.
Che cosa garantisce al controllo politico esercitato dal Quirinale (es. il caso Savona nel 2018) sull’iniziativa politica dei partiti sicura possibilità di successo, in un eventuale scontro istituzionale?
La circostanza che, a parte la messa in stato d’accusa per alto tradimento o attentato alla Costituzione, i comportamenti e gli atti del Presidente della Repubblica non sono sindacabili. Anche questo fa parte del triangolo. E lo si è toccato con mano nel 2018, quando si parlava allegramente in televisione di messa in stato d’accusa per il rifiuto alla nomina di Savona. L’alternativa sarebbe stata un conflitto di attribuzioni, sollevato non si sa bene da chi, quando, e in che modo. Lei vorrebbe stare in una causa, tutta politica, con chi le deve firmare ogni atto, dai decreti ai disegni di legge in una fase di crisi finanziaria?
Meglio trovare un accordo.
Detto questo, non è che in quel caso sia stato un bene andare in televisione a spiegare perché non si poteva nominare Savona. Almeno, non lo è stato sul versante interno. Diciamo che in altri tempi la cosa si sarebbe composta in altro modo. Quel che è certo è che, da allora, il Presidente della Repubblica può rifiutarsi di nominare un Ministro proposto. Il triangolo si regge anche sul fatto compiuto.
Il nuovo baricentro della politica italiana è Draghi, garante ed esecutore del Recovery Plan. È Draghi che ha bisogno del Quirinale o è il Quirinale che ha bisogno di Draghi?
Alla luce di quanto si è detto mi pare che, al momento, non si possa distinguere. Semmai il problema del sistema politico, tra qualche mese, sarà quello di conciliare i propri interessi, e la propria esistenza, con la necessità di perpetuare questa situazione.
(Federico Ferraù)
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