Mario Draghi al Quirinale e Daniele Franco a Palazzo Chigi. La staffetta è l’ipotesi suggerita, secondo un retroscena riportato ieri da Repubblica, da Luigi Di Maio. Il ministro degli Esteri ne avrebbe parlato con alcuni diplomatici a margine di un incontro ufficiale qualche giorno fa. Naturalmente, lo spiffero della Farnesina non è stato né confermato né smentito, ma ha ugualmente dato la stura a una girandola di interpretazioni le più disparate, soprattutto perché Di Maio pochi giorni fa aveva detto che la collocazione ideale di Draghi resta il governo e non la presidenza della Repubblica.
Un’ipotesi è che il ministro grillino abbia voluto rassicurare la diplomazia con uno scenario che consolida l’immagine dell’Italia: un tandem di fiducia per gestire i fondi del Pnrr. Altro scenario è che in realtà Di Maio voglia bruciare eventuali ambizioni dell’attuale ministro dell’Economia, che ieri era a Strasburgo per rappresentare l’Italia alla commemorazione dell’ex presidente francese Giscard d’Estaing. Non è poi da escludere che il titolare della Farnesina abbia mandato un segnale per sondare gli umori del suo partito, che resta quello di maggioranza relativa in questo Parlamento. Del resto, il quadro da lui delineato non è privo di incognite: Franco è un tecnico, non un politico, e non è affatto detto che sia in grado di gestire questa maggioranza sempre più rissosa che talvolta mette in difficoltà Draghi stesso.
Di sicuro l’uscita di Di Maio rimette il premier sulla graticola. Negli altri partiti si consolida il fronte di chi preferirebbe che il presidente del Consiglio resti dov’è fino alla fine della legislatura a gestire i dossier del Pnrr, e tra un anno si vedrà. A Draghi hanno chiesto di rimanere al governo per primo Berlusconi (che al Colle non vorrebbe altri che sé stesso), e poi Salvini, Conte, Enrico Letta. Non piace l’idea di un Draghi insediato al Quirinale per i prossimi sette anni a pilotare da lontano un esecutivo in cui i partiti sono di fatto esautorati. Nelle ultime settimane i segnali di insofferenza si sono moltiplicati fino alla clamorosa valanga di 6.300 emendamenti alla legge di bilancio presentati dagli stessi partiti di maggioranza.
Il senso è chiaro: Draghi non può permettersi di fare quello che vuole come se i partiti fossero semplici portatori d’acqua (e di voti) al suo servizio. Lo spiegano bene le parole di Maria Elena Boschi: “Siamo disponibilissimi a ritirare un numero significativo di emendamenti”, ha detto a nome dei parlamentari di Italia viva, “purché ci sia una discussione vera su alcuni temi e priorità per il Paese”. Equivale ad ammettere che con Draghi non si può discutere, almeno in questa fase. Mandarlo al Quirinale equivarrebbe a introdurre una forma di semipresidenzialismo, che Giorgetti settimane fa aveva adombrato un tantino incautamente. L’uscita di Di Maio va nella direzione auspicata da Giorgetti ma non contribuisce a chiarire la situazione.
Quel che resta è un’immagine di Draghi che si sbiadisce a poco a poco. Partito alla carica con l’imponente campagna vaccinale che gli è valsa l’ammirazione di tutta Europa, ora la sua azione si sta impantanando tra veti incrociati, tentennamenti, contraddizioni interne (clamorosa la retromarcia sulla didattica a distanza nelle scuole) e un crescente malumore popolare nel timore di nuove chiusure. Intanto il Pd ha presentato un disegno di legge per inserire nella Costituzione il divieto alla rielezione del presidente della Repubblica. Non importa se e quando verrà approvato: è come dire che il partito di Letta non sembra disposto ad assecondare chi non esclude una proroga per Mattarella.
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