Il 7 dicembre 1941 i giapponesi attaccarono gli americani a Pearl Harbor, italiani e tedeschi dichiararono agli Usa una guerra che avrebbero perso. Ottant’anni prima, il 17 marzo 1861, era stato proclamato il regno d’Italia sotto casa Savoia. Per la prima volta nella storia, l’Italia era uno Stato, quello che sarebbe stato sconfitto proprio dal conflitto del 1941.
Quanto gli italiani che entravano in guerra nel 1940 erano condizionati dagli avvenimenti del 1860, quando Garibaldi iniziava la sua spedizione dei mille? Quanto gli italiani di oggi, ottant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, sono o dovrebbero essere condizionati dalle lotte con nemici esterni e interni del 1940?
In ciò, l’elezione del prossimo presidente della Repubblica può essere un passaggio cruciale.
Si tratta di epoche distantissime, praticamente invisibili l’una dall’altra, non fosse altro perché sono pochissimi i novantenni e centenari che ricordano quei tempi, consegnati ai libri di storia. Così oggi l’incapacità italiana di staccarsi dall’eredità della guerra pare una sostituzione psicanalitica dell’incapacità di pensare il futuro del paese. Non è affatto chiaro infatti cosa sarà l’Italia nei prossimi ottant’anni o se ancora esisterà come Stato unitario.
Nel 1860 e del 1940 la direzione di marcia del futuro era chiara e condivisa.
Nel 1860 si trattava di completare il processo di unificazione nazionale, giocando di sponda nella politica europea, e dare per la prima volta una struttura centralizzata a quello che era un rappezzamento di staterelli divisi da sempre.
Ottant’anni dopo, a partire della sconfitta della guerra, l’Italia aveva un destino segnato all’ombra dei vincitori che già avevano cominciato la Guerra fredda, gli anglo-americani o i sovietici.
Oggi, invece, nulla è chiaro. Questa mancanza di chiarezza non è un problema secondario, mette a rischio l’esistenza stessa del paese. Cioè tra qualche anno l’Italia potrebbe smettere di esistere o diventare uno Stato fallito.
L’unità d’Italia non era un destino immanente nel 1860. La spedizione dei mille era stato un azzardo politico; la conquista dello Stato pontificio inizialmente sembrava un miraggio; l’Austria aveva ancora Trento e Trieste; il controllo del Sud, teatro di un’asperrima guerriglia, era incerto.
Otto decenni dopo, lo Stato italiano era talmente fragile e pericoloso per sé e per gli altri che i britannici pensavano fosse meglio spacchettarlo e ridividerlo in aree di influenza sotto di loro, gli americani, o i sovietici. È stato quasi un incidente della storia che ciò non sia avvenuto, e chissà se fu un errore non seguire Londra.
Rischi simili e più grandi sovrastano Roma oggi.
I partiti occupano il parlamento come un accampamento di manipoli. Hanno dirottato il dibattito nazionale incentrandolo sulla durata del proprio stipendio.
Le opere finanziate dal Pnrr non riescono a essere messe a cantiere perché le aziende o la burocrazia sono impacciate, incapaci o spaventate dalla loro ombra. Quindi i progetti che dovrebbero rilanciare tutto potrebbero non partire mai, o partorire un topolino, mentre il debito statale è esploso e presto dovrà essere restituito.
Intanto il mondo si è spostato da un’altra parte. Dal 1860 al 1940 l’Europa era il centro del mondo e dare una sistemazione politica alla penisola italiana era importante nel grande gioco delle potenze che si contendevano il primato continentale.
In questo i Savoia si inserirono astutamente. Non vinsero da soli alcuna guerra, anzi. Ma cambiando alleanze, muovendosi a zig-zag, riuscirono a fare avanzare gli interessi nazionali fino a quando Mussolini scelse l’alleato sbagliato, il perdente di turno, la Germania. Se avesse scelto la neutralità o la Gran Bretagna il suo destino e quello dell’Italia sarebbero stati diversi.
Da dopo la Seconda guerra mondiale fino all’altro ieri, l’Europa continuava a essere importante perché campo di battaglia principale fra i due blocchi, Usa e Urss. L’Italia allora era una terra di confine, nella Nato ma con il più grande partito comunista occidentale. Occorreva quindi per l’America sostenere l’Italia per non cederla all’Urss.
Oggi è tutto diverso. Il centro di attenzione principale è l’Asia e la Cina, area e paese su cui l’Italia ha fatto sbagli su sbagli. La Russia è ancora problematica, ma lontana dai confini italiani, tenuta a bada da Stati dell’Europa dell’Est e Turchia.
La Ue, da quando ha perso il Regno unito con la Brexit, è zoppa, ha difficoltà ad andare avanti o indietro. Con il lancio del suo ambizioso programma ambientale ha assunto una centralità spirituale, ma in realtà non sa cosa fare in politica.
La Polonia si difende solo con l’aiuto americano, sfidando a volte la supremazia delle leggi europee. La Spagna coltiva un suo spazio storico con l’America latina e gli Usa. La Francia, quasi erede della politica dei Savoia nell’800, vacilla fra grandeur nazionale, patti a due, come con l’Italia ora e prima con la Germania, e proclami europeisti. Berlino, orfana dei grandi sovrani Kohl e Merkel, non pare ancora uscita da un suo sonno fatato, mentre gli altri sette nani europei la vegliano.
In questo contesto l’Italia non è poi così importante. È utile per un valore storico, ma come può averlo anche la Grecia.
Essa è allo stesso tempo sempre più incomprensibile e politicamente irrilevante. Per cui se il costo di tenerle la mano moribonda eccede un certo limite, a quel punto diventa più semplice abbandonarla al suo destino di confine nord dell’Africa sahariana. Del resto l’Argentina negli anni 50 era ricca come gli Usa, e oggi per una serie di errori suoi è di nuovo un paese in via di sviluppo.
Impossibile dire con certezza quali sono quel limite e quel punto; ma potrebbe essere intorno a ciò che avverrà con l’elezione del presidente della Repubblica. Mario Draghi è stato la ruota di scorta della Repubblica, ma non ha poteri magici.
Né è chiaro cosa avverrà al paese se egli andrà al Quirinale, come alcuni sperano, o se rimarrà al governo con un altro presidente o anche con lo stesso Sergio Mattarella, come vogliono altri. Non è chiaro cosa succederà al parlamento dopo il voto perché c’è un conflitto tra deputati e senatori che vogliono conservare la poltrona e i capi partiti che vogliono le elezioni per assicurarsi gruppi parlamentari a loro immagine e somiglianza.
Tale confusione, a meno di due mesi dalla scelta del capo dello Stato, avrebbe dovuto fare impennare lo spread al di là della presenza al governo di Draghi o proprio per questo. I mercati avrebbero dovuto dire: se anche Draghi non porta ordine il paese non si salva. Che ciò non sia avvenuto prova l’ininfluenza attuale dell’Italia e la distrazione globale sui suoi destini.
Molto più cruciale per tutti è la Cina con i suoi debiti immobiliari, la sua crisi energetica. Molto più cruciale è la piccola Taiwan, possibile teatro di guerra. Il Vietnam, l’India, la Sud Corea, il Giappone stretti fra voglia di evitare lo strapotere cinese ma anche di sfuggire a un conflitto.
Ma l’incanto della distrazione finirà. Se i partiti non si svegliano, il caos sulla scelta del presidente e le sue conseguenze nei mesi successivi metteranno in ginocchio il paese come in una sconfitta bellica.
Calogero Mannino qualche giorno fa chiedeva una grande discussione e concertazione di linee politiche e intendimenti sulla scelta del presidente. Al di là di ogni nome da fare, è la discussione politica sul da farsi che è importante. Senza di essa il rischio è che qualunque candidato apra alla fine dello Stato italiano.
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