La moratoria chiesta da Letta qualche settimana fa sta inesorabilmente per scadere. Passate le amministrative e varata – con qualche difficoltà – la legge di stabilità sono rimasti davvero pochi alibi per non iniziare a parlare ufficialmente del nuovo presidente della Repubblica. Eppure Letta deve arrivare il più possibile a ridosso del voto senza scoprire nessuna delle sue carte. Manca poco più di un mese. Dal 4 gennaio ogni giorno è buono per il presidente della Camera per convocare i grandi elettori.
Il primo che ha cercato di stanare il segretario del Pd dalla sua posizione attendista, neanche a dirlo, è stato Matteo Renzi dal palco della Leopolda. “Letta è d’accordo con Conte, Salvini e Meloni, per eleggere Draghi e andare al voto nel 2022” ha tuonato il leader di Italia viva cercando di gettare nel panico le truppe sospettose dei parlamentari Pd. Letta non ha neanche abbozzato una replica.
Poi hanno tentato i fan della rielezione ad ogni costo di Mattarella (Tabacci, Ceccanti, il gruppo misto) a convincere il neodeputato di Siena a fare almeno la prima mossa, dire qualcosa, promuovere un appello per convincere il presidente uscente a restare. Niente, non li ha degnati di un segno di attenzione.
Dalle colonne dell’Huffington Post ci ha poi provato Massimo D’Alema a spingere il segretario del Pd a pronunciarsi per una diversa soluzione condivisa – invocando una donna come presidente – e rafforzare così la leadership di Draghi sul governo in una fase cruciale dell’attuazione del Pnrr. Il presidente della fondazione Italianieuropei ha poi suggerito di intervenire sul piano delle riforme, auspicando una nuova legge elettorale sul modello tedesco e garantendo a Letta la sua disponibilità alla ricomposizione delle forze di centrosinistra, dopo la parentesi disastrosa del renzismo.
Letta si mantiene sufficientemente abbottonato anche sul tema della nuova legge elettorale. Come si sa, il segretario del Pd è contrario al proporzionale, è favorevole alla reintroduzione delle preferenze e punta ad alcune modifiche dei regolamentari parlamentari volte a frenare il trasformismo dilagante. A questo va aggiunto che l’unico partito che può guardare con una certa tranquillità al voto è proprio il Pd. Il 21% dei voti di cui oggi è accreditato nei sondaggi rappresenta una percentuale doppia della forza attuale in parlamento, dopo le falcidie della sconfitta del 2018 e delle scissioni successive.
Il vero cruccio di Enrico Letta riguarda lo stato di salute del suo alleato principale, il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte. Stretto tra l’offensiva esterna dei fedelissimi della prima ora guidati da Di Battista e le trame sotterranee di potere del gruppo di maggioranza che fa capo a Di Maio, Conte vede erodersi, giorno dopo giorno, quella dote di consenso che almeno sulla carta gli è accreditata dai sondaggi. L’interesse del Pd e che i 5 Stelle non scendano troppo sotto la soglia del 15% e che non perdano il radicamento in particolare in alcune aree del Mezzogiorno (che significa collegi sicuri). Dopo le tensioni per le nomine lottizzate in Rai, il prossimo banco di prova dell’alleanza saranno il voto sulla legge finanziaria e le elezioni suppletive nel collegio per la Camera lasciato libero da Gualtieri.
Su questo ultimo fronte Letta sarà generoso e spingerà per un candidato condiviso che possa rappresentare per il suo alleato una boccata di ossigeno. Anche se Calenda probabilmente cercherà di interferire nella vicenda e far valere la sua forza, visto che si tratta di una delle zone di Roma dove la sua lista ha preso più voti.
Letta si sta convincendo che non vi sono alternative all’elezioni di Draghi come nuovo presidente della Repubblica. Quello che succederà dopo – elezioni anticipate o nuovo governo tecnico – dipenderà solo dal grado di tenuta delle altre forze politiche. Difficile mettere in piedi un nuovo governo se Salvini vuole uscire ad ogni costo da una coalizione che considera dannosa per la Lega e la sua leadership. La Meloni non aspetta altro. Conte più passa il tempo e più vede svanire l’effetto positivo nei sondaggi.
Dunque Letta sa che la soluzione principale rimane quella di candidare unitariamente l’attuale presidente del Consiglio. Non ci sono controindicazioni, né rischi. È l’unico candidato che può essere eletto al primo scrutinio, che sarebbe una buona prova di tenuta per il sistema Italia. Inoltre eviterebbe i rischi insiti nelle votazioni dopo la terza, visto che nessuno sa veramente cosa stia combinando Berlusconi. Potrebbe ricadere anche su Draghi la maledizione dei franchi tiratori? E con quale obiettivo? Un Draghi impallinato al primo scrutinio non potrebbe che rassegnare le proprie dimissioni, rendendo a quel punto le elezioni inevitabili. Proprio quello che i franchi tiratori di ogni colore non vogliono.
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