L’emergenza pandemica non finisce di colpire la stabilità delle nostre istituzioni. È di mercoledì scorso l’autocandidatura del presidente del Consiglio alla carica di capo dello Stato. E, per di più, senza far cenno a quando intenderebbe dimettersi dall’attuale incarico. Anche perché correttezza costituzionale vorrebbe che il presidente del Consiglio si dimettesse prima dall’avvio del procedimento di elezione del nuovo capo dello Stato, in modo da evitare qualunque ombra o sospetto circa impropri condizionamenti durante lo svolgimento del procedimento medesimo.
Del resto, mai nell’esperienza repubblicana si era ipotizzato l’immediato trasferimento da Palazzo Chigi al Quirinale. Il passaggio diretto dalla direzione dell’indirizzo politico di maggioranza – per quanto ampia quest’ultima possa essere – alla “rappresentanza dell’unità nazionale” è sempre stato considerato troppo temerario e praticamente insostenibile per chiunque. La ragione è di facile comprensione: la carica di premier è inevitabilmente divisiva, mentre quella di capo dello Stato deve essere, per volontà della Costituzione, necessariamente inclusiva.
E che questo evidente ostacolo si sia subito appalesato, lo dimostra proprio quanto si è verificato dopo l’autocandidatura di Draghi: non è emerso un coro unanime, tutt’altro. Così confermandosi quanto è sempre apparso chiaro a qualunque possibile candidato al Quirinale: mai esporsi precocemente, perché l’unico effetto sicuro è quello di sollevare immediate critiche e opposizioni.
Insomma, il presidente del Consiglio che è stato chiamato ad affrontare una delle crisi più gravi della Repubblica, nel momento stesso in cui ha dichiarato pubblicamente la sua disponibilità all’elezione a capo dello Stato, ha trascurato gli effetti contrari che ne sono subito derivati. Non soltanto indebolendo la prospettiva da lui stesso ipotizzata, ma anche incidendo sul Governo che presiede. In vero, Draghi ha tranquillizzato l’opinione pubblica sui destini del “suo” Governo dopo la “sua” eventuale ascesa al Colle. Ma sulla stabilità delle istituzioni si sono immediatamente determinate alcune conseguenze assai perniciose.
Prima di tutto, questa autocandidatura pubblicamente manifestata implica che l’attuale incarico di Draghi è ormai in scadenza: essendosi “ufficiosamente” candidato alla suprema carica, qualunque sia l’esito dell’elezione del nuovo capo dello Stato egli non sarà più il premier: o perché sarà divenuto presidente della Repubblica, o perché sarà sconfitto nella competizione presidenziale. Certo, nessun governo della Repubblica può essere – o addirittura auto-dichiararsi – “ufficialmente” a termine. Ma, in ogni caso, l’auto-candidatura al Quirinale produce un effetto disgregante, quello cioè di accentuare quelle fibrillazioni e fratture che l’attuale “larga coalizione” sembrava poter controllare. Mettendo così definitivamente a rischio la prosecuzione della legislatura.
Inoltre, è apparsa insufficiente e contraddittoria la rassicurazione di Draghi circa il fatto che, in caso di suo passaggio al Quirinale, si manterrebbe l’attuale assetto di governo e si completerebbe la legislatura sino alla scadenza naturale. Insufficiente perché, se è vero che il capo dello Stato è competente sugli esiti delle crisi di governo, soltanto il parlamento può disporre della vita di ogni esecutivo, dandogli e negandogli la fiducia. E contraddittoria perché è sembrata prefigurare una sorta di imposizione nei confronti del parlamento e delle forze politiche democraticamente elette.
Dunque, il contemporaneo richiamo di Draghi al costante rispetto per il parlamento è suonato quasi come un fuor d’opera, se solo si pensa a quanto avvenuto nel corso dell’attuale manovra di bilancio e al gravissimo svuotamento del ruolo del parlamento, in misura anche superiore a quanto verificatosi in altri simili precedenti.
Con queste dichiarazioni si è aperto allora un interessante confronto con l’attuale capo dello Stato. Mattarella, sinora, non ha replicato pubblicamente. È probabile che agirà in forma riservata per preservare una dignitosa conclusione di questa difficile fase della vita repubblicana. È evidente, tuttavia, che alla perdurante incertezza sulla possibilità di un Mattarella-bis si aggiunge adesso questa sorta di ultimatum che è stato posto sia all’attuale governo, sia, indirettamente, al parlamento. E cioè all’organo che, unitamente ai delegati regionali, avrà il non facile compito di trovare il consenso necessario per eleggere un nuovo capo dello Stato che possa traghettare l’Italia verso lidi migliori. Qualcuno sostiene che il Pnrr sarebbe diventato la nuova “costituzionale materiale”. Non vorremmo che, strada facendo, la Costituzione fosse definitivamente abbandonata.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI