Avviso ai naviganti: la corsa al Quirinale è solo alle prime battute, ed è destinata a entrare nel vivo verso metà dicembre. Eppure se ne parla sempre di più, anche perché sembra destinata a segnare la politica italiana degli anni a venire. Secondo punto fermo: il grande gioco comincia da due nomi, quelli di Mattarella e Draghi.
Intorno al Capo dello Stato uscente il pressing si fa sempre più asfissiante: non solo politici, ma anche uomini di cultura e di spettacolo, da Roberto Benigni a Marco Mengoni, gli chiedono di rimanere ancora un po’, sul modello di Napolitano. Tutto sarebbe più semplice, in apparenza almeno. In questo schema, infatti, Draghi potrebbe rimanere a Palazzo Chigi fino quasi a metà 2023, alla fine naturale della legislatura a guardia del Pnrr.
Solo Mattarella al Quirinale garantirebbe l’attuale fragile equilibrio. Qualunque altra scelta, a partire dallo stesso Draghi Capo dello Stato, lo farebbe saltare, con la fondata possibilità che la fase di unità nazionale finisca un minuto dopo, e il ricorso alle urne sia inevitabile. A sinistra in molti sono convinti che questo sia il sogno segreto di Salvini, ma forse anche della Meloni. I più maligni sospettano che anche Conte non sarebbe dispiaciuto dell’ipotesi, cosi da contrastare il declino dei 5 Stelle.
Quante probabilità ci sono che Mattarella accetti la rielezione? Pochissime, i segnali dal Colle sono inequivocabili. C’è anzitutto una ragione di convinzione personale, che il mandato presidenziale sia già abbastanza lungo. E poi, se dopo Napolitano un altro Capo dello Stato fosse rieletto, si instaurerebbe una prassi che peserebbe sul futuro, e i successivi inquilini del Quirinale aspirerebbero tutti alla riconferma.
Nei corridoi dei palazzi romani si sussurra poi di un altro scenario, descritto sotto forma di domanda, che suona più o meno così: ammesso che Mattarella accetti la rielezione, per quale ragione dovrebbe impegnarsi oggi ad andarsene nel 2023, senza sapere quali equilibri ci saranno allora? Ulteriore esplicazione: Mattarella verrebbe rieletto alla stessa età in cui Napolitano venne scelto per la prima volta per il Quirinale, e gode di salute discreta. Qualora ci fosse la necessità di mantenere in equilibrio il sistema (possibile vittoria del centrodestra alle politiche del 2023, con rischi sul piano europeo), chi potrebbe costringerlo ad andarsene? Potrebbe trovare necessario rimanere, e non lasciare tutte le istituzioni in mano alla stessa parte politica. Qualcuno masticherebbe amaro, ma per sloggiarlo dovrebbe fare fuoco e fiamme, senza certezza del risultato. Ed ecco perché la certezza di sette anni di Draghi al Quirinale potrebbe tornare comoda a molti, anche a costo di anticipare la fine della legislatura. Sarebbe il male minore.
Partita delicatissima, dunque, in cui i leader fanno ancora pretattica, e molti nomi vengono avanzati per essere bruciati. Il capo partito più concentrato sulla sfida sembra Renzi, che pare avere in testa un nome fra Pierferdinando Casini e Marta Cartabia, con la ministra della Giustizia che oggi pare aver perso qualche colpo dopo le difficoltà a mediare emerse in occasione della riforma della giustizia.
Il partito più confuso sembra quello da cui Mattarella proviene, il Pd. Mentre il suo leader, Letta, si dice “il più draghiano”, l’ex ideologo dell’asse con i 5 Stelle Bettini dice che quello di Draghi “non è il nostro governo”. Se qualcosa andasse storto alle elezioni di inizio ottobre, Letta si troverebbe a gestire la partita in condizioni di estrema debolezza. Oggi dice che il governo deve arrivare a fine legislatura, con alla testa l’ex presidente della Bce. Ma al dunque potrebbe non avere la forza di resistere su questa linea, pressato dai troppi “quirinabili” che albergano fra le file dem.
A gennaio, quando si arriverà al dunque, o ci sarà la forza per trovare un’ampia intesa, oppure il centrodestra parte in vantaggio in una lacerante conta all’ultimo voto. Difficile immaginare che vi sia un nome condiviso al di fuori del duo Mattarella-Draghi. Poi, dalla quarta votazione, basterà la maggioranza assoluta dei grandi elettori, 505 voti. Nell’ipotesi in cui i 450 voti del centrodestra trovassero un accordo con i 44 renziani, la soglia fatidica sarebbe a un passo. E il Pd potrebbe trovarsi per la prima volta a subire una scelta altrui. Per Letta la partita più difficile e più rischiosa. I suoi non gli perdonerebbero l’essere tagliati fuori.
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