Secondo Agatha Christie due indizi sono una coincidenza, e non ancora una prova. Ma se il peso di questi indizi è grande, bisogna alzare le antenne. Primo indizio: Matteo Renzi che chiude la Leopolda dicendosi convinto che nel 2022 si andrà a votare. Secondo indizio: Enrico Letta, che invita il Pd a farsi trovare pronto quando finirà la stagione di Draghi.



Sino a pochi giorni fa, che la legislatura fosse destinata ad arrivare alla sua conclusione naturale nella primavera del 2023 era un dato praticamente acquisito. Andare subito al voto dopo la disfida del Quirinale non era nell’interesse praticamente di nessuno, salvo forse di Giorgia Meloni, che infatti era l’unica a invocare le elezioni, seppure in maniera sempre più flebile. C’era pure la preoccupazione di molti parlamentari per la pagnotta (e per il vitalizio che scatta solo a fine settembre 2022) a frenare la corsa verso le urne.



Cosa è cambiato, allora? Che la situazione politica è in rapida evoluzione, e le elezioni anticipate non sono più un tabù. Nei corridoi di Montecitorio e di Palazzo Madama si respira aria di stanca, quasi di “rompete le righe”. La maggioranza appare sfilacciata e litigiosa su tutto. Non a caso Draghi ha convocato per la prossima settimana i gruppi parlamentari: incontri separati con ciascun partito per mettere la manovra economica il più possibile al riparo da agguati e trabocchetti. E con la sessione di bilancio in netto ritardo, incidenti non sono ammessi.

Ma la navigazione del governo si è fatta sempre più faticosa, e l’equilibrio che lo sorregge, divenuto molto precario, è  destinato a finire presto. Ecco il fatto nuovo, soprattutto dalle parti del Pd: la graduale presa d’atto che Mattarella fa sul serio, che non ci sarà modo di convincerlo al bis. La quantità di segnali mandata dal presidente a fine mandato sta convincendo i leader politici a rassegnarsi a fare a meno di lui. A fine gennaio verrà meno, quindi, una delle due colonne che reggono il quadro politico attuale. L’altra, Draghi, per quanto robusta, da sola non può reggere tutto. Non può fare due parti in commedia.



Il premier rimane il nome più forte per il dopo Mattarella, ma a quel punto resterebbe scoperto Palazzo Chigi. E in giro non si vede chi possa raccogliere il suo testimone, nonostante i tentativi evidenti di accreditare Daniele Franco e Marta Cartabia in Italia e all’estero.

Eleggere Draghi al posto di Mattarella potrebbe avere quindi un effetto bomba, una sorta di “liberi tutti” dalla gabbia dell’unità nazionale, che a molti leader comincia a stare stretta. Se si pensa che a Salvini viene attribuita la frase “ingoiamo i rospi sino a febbraio”, la prospettiva di un ritorno alle urne a primavera comincia ad apparire più nitida all’orizzonte. E gli indizi da due diventano tre, e diventano una prova.

Il problema è che nessun partito sembra pronto a un voto che potrebbe arrivare quasi senza volerlo. Non lo è il Pd, che fatica a costruire il “campo largo” immaginato da Letta, perché Renzi con i 5 Stelle non vuole proprio stare (e vale anche il contrario). In più i grillini sono allo sbando, sospesi fra il movimentismo del fondatore e la pochette di Giuseppe Conte.

Ma se Atene piange, Sparta non ride. Il centrodestra è in condizioni pure peggiori, con scarsa fiducia fra i tre leader, la Lega alla ricerca di un equilibrio e Forza Italia della cui consistenza reale, al di là della figura di Berlusconi, molti dubitano. In più, il tentativo di dar vita a uno schieramento centrista (Renzi, Calenda, Bonino, Toti, ecc.) ancora non decolla.

L’unica certezza è che se dopo il voto per il Quirinale si dovesse precipitare verso le urne, non ci sarebbe il tempo di cambiare la legge elettorale. Si voterebbe con il Rosatellum adattato alla riduzione del numero dei parlamentari, con un lieve vantaggio per il centrodestra, che sarebbe spinto a superare le proprie divisioni interne e a ritrovarsi intorno a candidati unitari nei collegi uninominali.

Nulla però è scritto. Tutto entrerà nella partita del Quirinale: successore di Mattarella, destino del governo di unità nazionale, conclusione della legislatura. Se le elezioni anticipate non sono più un tabù, non sono nemmeno una certezza.

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