La sorpresa che la politica italiana ha trovato nell’uovo di Pasqua è un governo alla canna del gas. Una debolezza tanto evidente quanto inattesa, che si è materializzata nella scomposta conferenza stampa di Conte di venerdì sera, trasformatasi in un’arringa rabbiosa contro Salvini e Meloni. Talmente fuori luogo dall’allarmare amici ed alleati, non ultimo il Capo dello Stato. Lui da quei toni urlati (e conditi anche da un clamoroso svarione storico) è e rimarrà sempre lontano mille miglia. Vecchia scuola democristiana.



È un trucco collaudato quello di distrarre l’attenzione quando si è in difficoltà. Di solito però sollevare i polveroni può aiutare per un tempo brevissimo, poi i nodi vengono al pettine. Conte sembra oggi in difficoltà su tutti i fronti, interni ed esterni. Ora che si è bruciato tutti i ponti con l’opposizione (non ha citato Berlusconi sperando di blandire i forzisti, ma difficile che lo schema funzioni), potrà contare solo sulle forze di una maggioranza divisa. Ha bocciato la patrimoniale proposta da Delrio, facendo storcere il naso al Pd. E ha dichiarato che senza eurobond lui non firmerà alcuna intesa al vertice europeo del 23 aprile.



Al Nazareno il timore è che per compiacere i 5 Stelle Conte arrivi al tavolo dei capi di Stato e di governo dell’Unione senza margine di manovra. Per i democratici dopo l’Eurogruppo la questione del Mes è diventata puramente nominalistica. Perché, si chiedono in molti, a cominciare dal capogruppo Marcucci, rinunciare ad attivare il Mes almeno per coprire le maggiori spese sanitarie, visto che, dice Gualtieri, sono state spazzate via dal tavolo le pesanti condizionalità precedenti? Anche dalle parti del Colle si condivide l’idea che nulla debba essere lasciato di intentato pur di dare nuova linfa all’economia. Dalle parti dei grillini, invece, ormai il no al Mes rappresenta una sorta di linea del Piave, caduta la quale la propaganda della destra avrebbe praterie dinanzi a sé, con l’aggravante che alcuni parlamentari pentastellati potrebbero passare all’opposizione. Giarrusso, ad esempio, lo ha già ipotizzato. E si teme che sia pronta a un clamoroso no la galassia che fa riferimento all’ultras Di Battista.



L’impressione è che Conte il 23 aprile accenderà il computer per la videoconferenza con poche carte in mano. Certo, se con la sponda di Macron dovesse piegare la signora Merkel ne uscirebbe da vincitore. Ma è lecito dubitarne. Se dovesse dire sì al Mes potrebbe tentare di dire che poteva andar peggio, perché le condizioni sono meno gravose del passato e sono state attivate altre strumenti di supporto. Ma la botta d’immagine sarebbe grossa. E sarebbe un disastro se si alzasse dal tavolo negando l’unanimità. Potrebbe passare per vittima, cosa che funziona nel breve periodo, ma esclusivamente sul piano comunicativo.

Anche sul piano interno il governo sembra girare a vuoto. Non un centesimo è ancora arrivato nelle tasche degli italiani, e sembra ci siano idee più che confuse sulla fase di uscita dal lockdown. La mossa della disperazione è la nuova task force di teste d’uovo guidata da Vittorio Colao. A parte la confusione fra i comitati creati per gestire l’emergenza, in molti dietro la scelta dell’ex numero uno di Vodafone hanno visto la longa manus di Mattarella, oltre che del Pd.

Le funzioni del nuovo comitato in merito alla gestione della fase 2 sono vaghe, ma proprio per questo meritano attenzione. Se prese alla lettera vanno a intersecarsi con molti ministeri, proprio per questo il suo coordinatore potrebbe giocare un ruolo di ministro ombra. Molto del rilancio dell’economia italiana potrebbe giocarsi proprio su quel tavolo, dove siederanno personaggi di peso e di relazioni ampie, come l’ex ministro Enrico Giovannini, guarda caso presenza frequente alle iniziative sociali del Quirinale.

Il rischio di conflitti di competenze e invasioni di campo risulta più concreto di quanto non si possa immaginare. Ma questo è nulla rispetto al rischio che il governo corre nel caso di un fiasco totale al tavolo europeo. In quel caso Conte rischierebbe di trovarsi anzitempo al capolinea. Con Colao già in pista, la sostituzione in corsa sarebbe bell’e pronta. Non è Draghi, insomma, l’unica alternativa all’esecutivo giallorosso.

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