Ha avuto l’effetto dello sparo di uno starter la piccata uscita del Quirinale, che ha stroncato ogni ipotesi di rielezione per Sergio Mattarella. Una smentita, l’ennesima, per quei duri di comprendonio che continuavano a tirare per la giacca il presidente uscente. È come al Palio di Siena: quando il mossiere cala il canapo, e anche il cavallo che parte dall’esterno, “di rincorsa”, si getta in avanti: la competizione è ora iniziata per davvero.



In molti, e a ragione, hanno visto nella mossa di Mattarella una tirata d’orecchi per il “suo” Pd, sinora bloccato sull’ipotesi della rielezione, senza subordinate. Quel cavallo, il decimo, che al Palio a volte si rifiuta di entrare fra i canapi e impedisce una partenza regolare. Ora basta pretesti, anche perché immaginare il bizantinismo secondo cui lui sarebbe stato disponibile al bis proprio perché il parlamento si accingeva a introdurre nella Costituzione il divieto del bis aveva indispettito Mattarella oltremisura, sino a fargli esprimere stupore e irritazione. Mai accaduto in questo settennato, dove pure di ragioni per perdere la pazienza non ne sono mancate.



Si ricomincia da capo, quindi, mentre la sabbia continua a cadere nella clessidra. All’apertura delle votazioni mancano 45 giorni, e nei corridoi non si parla altro che di Quirinale, anche se Enrico Letta si ostina a ripetere che la discussione politica entrerà nel vivo sono dopo il varo della legge di bilancio, negando abboccamenti con la Meloni, o con chicchessia.

Ma il dialogo fra i leader rappresenta la precondizione per evitare che intorno al Colle scoppi la guerra di tutti contro tutti. Una consapevolezza che sta crescendo, anche se non è detto che porti frutti. Uscito di scena Mattarella, il primo nodo da sciogliere riguarda Mario Draghi. È il candidato naturale della maggioranza di unità nazionale, che però potrebbe non sopravvivergli, in caso di ascesa al Colle. La politica si divide fra chi preferisce resti a Palazzo Chigi (il Pd, Forza Italia, ultimamente persino Salvini), e chi lo preferirebbe al Quirinale (la Meloni, su tutti).



Conterà, e molto, l’opinione del diretto interessato. E conterà (ma difficile dire quanto) la spinta internazionale affinché Draghi continui nella sua azione di governo, nell’interesse dell’Italia e insieme dell’Europa, orfana della Merkel e con Macron impegnato nella battaglia per farsi rieleggere. Mantenerlo alla testa del governo italiano rappresenta poi anche una polizza sulla vita per la moltitudine di deputati e senatori timorosi del voto anticipato. E anche questo è un elemento da tenere a mente, in una situazione di incredibile spappolamento dei gruppi parlamentari.

Se Draghi dovesse rimanere premier sarebbe necessario trovare una intesa ampia, su un nome in grado di garantire tutta l’attuale maggioranza. In giro se ne vedono pochi: forse Casini, forse Amato, altri chissà. Se l’attuale presidente del Consiglio traslocasse al Quirinale le cose sarebbero, se possibile, ancora più complicate, perché servirebbe un sostituto forte al governo per non interrompere questa fase di unità nazionale. L’ultimo nome che circola è quello di Marta Cartabia, dopo un periodo in cui si vociferava di Daniele Franco. Dalla sua la guardasigilli avrebbe anche il poter essere il primo premier donna. Ma l’ipotesi sembra oggi ancora debole, e ha bisogno di tempo per consolidarsi.

Le vecchie volpi del Transatlantico avvertono di un rischio: in assenza di un’intesa che porti a una fumata bianca in prima votazione, e anche se Draghi dovesse venire impallinato nel segreto dell’urna (vista l’antica tradizione dei “franchi tiratori”), dalla quarta votazione il quorum per l’elezione si abbassa e ogni ipotesi diventa plausibile, persino quella di Berlusconi presidente, se il centrodestra dovesse ritrovarsi unito su questo nome, cosa di cui è lecito dubitare.

Con Draghi fuori gioco il sistema politico andrebbe incontro a un terremoto: lo confermano le voci di corridoio degli ultimi giorni, come l’avvicinamento fra Renzi e Coraggio Italia di Toti e Brugnaro, o l’ipotesi di una scissione in casa 5 Stelle. Ogni mossa, a quel punto, andrebbe letta nella prospettiva di un praticamente inevitabile ritorno anticipato alle urne, che la stragrande maggioranza dei leader politici oggi sembra temere. Domani chissà.

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