C’è una domanda che dovremmo porci in questa corsa verso la designazione al Quirinale del nuovo capo dello Stato. Donde deriva il potere di Silvio Berlusconi nella partita che si è aperta, tra Europa, alleanze internazionali e minaccia cinese? Il tutto nel catino della crisi organica dei partiti di cui molte volte dicemmo. Il quesito si pone. Ed è squisitamente sociologico o se si vuole di scienza della politica nel senso più elitistico del termine.



Quale minoranza organizzata tiene per il cappio quella maggioranza silenziosa che è fatta sia di elettori, sia di eletti che sono raccolti attorno un capo che vede ogni giorno il suo potere d’influenza, ossia di egemonia nel puro senso gramsciano del termine, restringersi sempre di più? Certo Mediaset continua ad avere sul piano dell’informazione una serie di telegiornali che rivaleggiano con quelli sempre più scadenti e partigiani (anch’essi, certamente) della televisione pubblica devastata dalle appartenenze politiche e sempre più da un gergo e da un agire sociale “politicamente corretto” che rivaleggia con ciò che si legge su certa stampa Usa a cui siamo stati abbonati per decenni e ora non riusciamo più a leggere.



E che dire poi delle fortune calcistiche? Dal Milan al Monza, e ancora potremmo continuare se non ci trattenesse il rispetto per la persona della quale tutto si può dire e disdire, ma che è stata indubitabilmente perseguitata da una magistratura che si è – nei suoi confronti – comportata come un potere anziché come un ordinamento, nella divisione dei poteri che dovrebbe esistere e che non esiste. Chi non crede a quello che qui si afferma dovrebbe rileggere la legge Severino e allora trasecolerebbe, se è una persona amante della Costituzione repubblicana e del rispetto che si deve per il capo dello Stato che quella legge non respinse: una legge non costituzionale per eccellenza, retroattiva, che sarà studiata dalla storiografia futura che sceglierà l’Italia per documentare il trapasso dalla democrazia sociale all’illiberale formula politica di governo a democrazia limitata che ora ci governa, tra l’Ue e la decadenza dello spirito pubblico.



E qui veniamo al punto: che cosa fonda il potere di aggregazione e di egemonia culturale e politica di Berlusconi sul cosiddetto “centrodestra” nella sua interezza, al di là dei distinguo e delle divisioni che possono rendersi manifeste e che tali saranno sempre più forti in futuro, proprio in occasione di questa elezione dello capo dello Stato, pur sempre senza mai porre in discussione, tuttavia, il potere interdittivo di quell’appartenenza?

La risposta non può che essere politica, ossia di scienza politica e condurci e riflettere sulla disgregazione che Lodovico Festa ed io abbiamo descritto nel nostro ultimo lavoro (Draghi o il caos. La grande disgregazione: l’Italia ha una via di uscita?), edito da Guerini e da GoWare pochi giorni or sono.

Silvio Berlusconi con tutta la sua lenta disgregazione caciquistica, ossia con la perdita via via del suo potere egemonico, ne possiede tuttavia ancora quel che basta per indicare la via all’Italia moderata, che guarda sempre alla conservazione e al reticolo del particolarismo guicciardiniano: essi – Berlusconi e i suoi caciqui – sono in fondo il segno distintivo della sempiterna “rivoluzione passiva italica”. Qualsiasi idea o forza di cambiamento in Italia deve fare i conti con il peso della subalternità della nostra borghesia alle forze che mirano alla disgregazione italica in una resistenza a tutto ciò sempre più asfittica e priva di nerbo rispetto ai grandi mutamenti del capitalismo internazionale e alla sua crescente centralizzazione finanziaria e istituzionale, via Ue e via algoritmica. È una subalternità ideale culturale in primo luogo, che ha il suo segreto nella formula politica del moderatismo che Berlusconi incarna.

Certo, un’incarnazione che si porta appresso tutta “l’antropologica Italia” su cui tanto pensò e ripenso da ultimo, per esempio, Giulio Bollati e che va dall’uso della mascolinità per continuare a impedire alla donna di liberarsi da subalternità millenarie, all’ostracismo verso una cultura umanistica che possa essere il lievito per qualsiasi costruzione di una personalità che abbia nel dovere e nel rispetto per la scienza e per gli obblighi che derivano (e nella pandemia abbiamo faticato a comprendere l’importanza di questo concetto e di questo comportamento) il centro del suo essere nel mondo.

Per cui al di là delle forze in campo, al di là delle schiere elettorali, al di là dei mezzi economici, è alla politica e al suo comporsi nella storia che occorre tornare per comprendere che cosa e quanto condizionerà – questo tipico moderatismo – anche l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Il sempiterno moderatismo italico: quella “riserva di fondo nei confronti della civiltà moderna” di cui un vecchio maestro – ahimè – dimenticato come Giulio Bollati, appunto, scriveva un tempo.

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