Ci mancava solo la “variante Omicron”. Cosa c’entra con la corsa per il Quirinale? C’entra, eccome. Il nuovo allarme, se verrà confermato dalle analisi cliniche, potrebbe costituire un’eccellente argomentazione per perorare la causa dello status quo. Per invocare la rielezione di Mattarella, persino contro la volontà del diretto interessato.



Che l’attuale inquilino del Colle più alto sia totalmente indisponibile in questo spazio lo abbiamo ricordato più volte. Eppure c’è un pezzo della politica che non si è ancora arreso all’idea: salvare l’attuale equilibrio a due pilastri (Mattarella al Quirinale e Draghi a Palazzo Chigi) è per molti la polizza contro il crollo della fase straordinaria di unità nazionale che stiamo vivendo dal febbraio scorso.



Principali indiziati, lo hanno scritto diversi giornali, ex democristiani di destra e di sinistra, pronti a tutto per convincere il loro antico compagno di partito. In questo senso è stata letta anche la proposta di revisione costituzionale depositata dall’ex cossighiano Luigi Zanda (insieme con il presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, Dario  Pardini) per inserire il divieto di immediata rieleggibilità del Capo dello Stato e la contestuale cancellazione dell’istituto del “semestre bianco”, una doppia riforma propugnata proprio da Mattarella, nella scia dei suoi predecessori Antonio Segni e Giovanni Leone.



Rieleggere un presidente per scrivere nella Costituzione che il presidente non è rieleggibile? Per quanto bislacco, il ragionamento è proprio questo: per alcuni un Capo dello Stato uscente, e per di più convinto di questa riforma, sarebbe l’ideale, se restasse al suo posto per il tempo necessario a completare il complicato iter della revisione costituzionale.

Chi conosce l’ostinazione del mite Mattarella ha più di un dubbio che si possa lasciare smuovere, tanto dall’emergenza “Omicron”, quanto da una piccola riforma costituzionale, per quanto la giudichi necessaria.

Fatto sta che, in parallelo all’ultimo assalto per convincerlo a restare al suo posto, è partito un vasto coro di esponenti politici schierati perché Draghi resti a Palazzo Chigi, almeno sino alla fine naturale della legislatura nel 2023. Il più autorevole è certamente Berlusconi, ma in maniera simile si sono espressi in molti, da Di Maio a Calenda, a Vincenzo De Luca. Segno di un fronte trasversale, nel quale ovviamente ciascuno porta motivazioni differenti.

Nei fatti l’elemento unificante vero di tutti è la paura del passaggio elettorale. È un discorso che vale per Berlusconi, che ha un partito disarticolato e in ritirata nei consensi, e non ha ancora deciso cosa farsene, diffidando di Salvini e Meloni. Ma anche i 5 Stelle e la galassia centrista appaiono oggi assolutamente impreparati a un voto in primavera, che sarebbe la prospettiva più probabile, in seguito all’elezione di Draghi al Quirinale. I grillini sono una formazione in cerca d’autore, di leadership e di prospettive politiche, il centro rappresenta uno spazio tutto da ricostruire, con troppi galli a cantare, troppi generali e poche truppe.

Per comprendere questa fase sembrano illuminanti le parole pronunciate ieri da Enrico Letta: “Sarebbe incredibilmente contraddittorio che la maggioranza che elegge il presidente della Repubblica possa essere più piccola di quella che sostiene Draghi”. Sottinteso: se accadesse, la fase dell’unità nazionale sarebbe archiviata all’istante, con tutte le conseguenze del caso, crisi di governo e probabile scioglimento delle Camere.

Il corollario è che, prima o poi, i leader dei partiti che sostengono il governo dovranno sedersi attorno a un tavolo e provare a ragionare su una intesa possibile. Se la troveranno, e non è affatto scontato, non solo le votazioni per il successore di Mattarella potrebbero ridursi a una sola. Avrebbero anche dato un senso a dieci mesi di difficilissima coabitazione nel governo Draghi.

Che sia o no l’attuale premier ad andare al Quirinale, la vera posta in gioco è trovare il modo di dare continuità all’azione di questa formula di governo. Non è affatto detto che questo sia l’interesse (e l’intenzione) di tutti i leader di maggioranza, ma il primo nodo da sciogliere è rispondere a questo interrogativo.

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