L’illusione che l’emergenza coronavirus potesse essere archiviata con una settimana di serrata del Nord simil-Ferragosto si è dissolta nel fine settimana. Tutta la politica ha dovuto prendere atto che le cose sono molto più complicate di quanto non apparisse in un primo momento. Tutta, governo, maggioranza e opposizione.



Per capirci, sono passati meno di dieci giorni dal tentativo di spallata sull’asse Renzi-Salvini, ma sembra un secolo. Oggi andare all’attacco del governo sarebbe considerato un gesto irresponsabile, irricevibile anche dal Quirinale, visto quanto si è aggravata la situazione.

Per l’esecutivo questo tempo sospeso in cui, di fatto, una crisi di governo risulta impraticabile, è una buona notizia solo a metà. Il futuro di Giuseppe Conte e della legislatura sembra assai meno legato di prima alla prospettiva di andare avanti sino all’elezione del successore di Sergio Mattarella al Quirinale (prevista nel gennaio del 2022). Tutto si gioca sulla capacità di gestire l’emergenza epidemia, e vista la difficoltà mostrata nei mesi scorsi nel prendere qualsivoglia decisione, ogni dubbio sull’efficacia dell’azione è legittimo.



In questa fase può essere perdonato tutto, persino produrre ancora più deficit di quello già ingente previsto dall’ultima legge di bilancio, ma non l’inefficacia dei provvedimenti di emergenza, visto che lo scivolamento del paese in una fortissima recessione risulta ormai praticamente certo. E il secondo decreto legge sul coronavirus sembra poca cosa, pur mettendo in campo 3,6 miliardi di euro per il sostegno alle imprese. Forse è troppo presto per capire quanto serva in realtà, e infatti è cominciata una gara al rialzo, da “Cambiamo” di Toti che chiede 30 miliardi, sino a Salvini che spara la cifra di 50. Oggi nessuno sa quantificare con certezza le necessità, quel che è certo è che non basteranno i belletti della comunicazione a Palazzo Chigi, servirà una reale capacità di concertazione con le parti sociali per arrivare a misure minimamente efficaci.



Male poi farebbe Conte a crogiolarsi troppo nella convinzione che la sua poltrona sia al sicuro da scossoni per molto tempo. Il fuoco cova infatti sotto la cenere, e le manovre per disarcionarlo continuano dietro la cortina di fumo dell’emergenza, pronte a riemergere non appena la nebbia comincerà a diradarsi.

Lo si capisce dalle parole di Renzi: affermare che oggi le polemiche devono essere azzerate equivale a dire che esse torneranno d’attualità non appena si potrà tirare un sospiro di sollievo. Nel frattempo l’ex premier continua a tessere la sua tela, che i suoi avversari ovviamente stanno facendo di tutto per strappare. Agli abboccamenti dei renziani si contrappone il lavorio per dare vita al gruppo dei nuovi responsabili, chiamati a rendere ininfluente l’eventuale addio dei parlamentari di Italia viva.

Spicca in questa operazione l’attivismo di Dario Franceschini, capo delegazione Pd e di fatto il numero due di un governo senza vicepremier. Nel suo ufficio al ministero, secondo i retroscena, gli aspiranti responsabili si sarebbero incontrati nei giorni scorsi. Nella quasi totalità si tratterebbe di senatori e deputati provenienti dalle fila di Forza Italia, ma solo un nome è trapelato, quello di Renata Polverini, già numero uno dell’Ugl. Anche questa operazione sembra per ora in stand up, anche perché sarebbe sciocco venire allo scoperto senza una ragione. Insomma, se i renziani restano nella maggioranza, inutile andare in soccorso, perché i nuovi apporti sarebbero meramente aggiuntivi e non decisivi. Se invece Italia viva dovesse rompere, ci sarebbero due poltrone da ministro, alcune da sottosegretario e la possibilità di inserirsi nel gioco per il rinnovo di metà legislatura dei presidenti delle commissioni parlamentari.

Si naviga a vista, quindi. E quanto durerà questa fase oggi nessuno può dirlo con certezza, tanto è vero che cresce l’ipotesi di rinviare il referendum costituzionale del 29 marzo sul taglio dei parlamentari. Non appena il livello di allarme sarà declinato, lo scontro politico si riaccenderà esattamente dal punto in cui l’abbiamo lasciato.

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