Dopo gli Usa e il G7 (ma senza l’Italia), è stata la volta della Ue: nel mirino c’è la Cina. Una lettera degli ambasciatori europei, pubblicata dal China Daily dopo un intervento di censura di Pechino, ha scatenato le ire della Ue. Bruxelles ha lanciato una proposta pesante: una commissione d’indagine internazionale, con la collaborazione dell’Onu.



Qui nasce il primo problema italiano, con il Pd (ministri Lorenzo Guerini ed Enzo Amendola) che ha seguito la linea Ue e i 5 Stelle in netto contrasto. L’Italia si è associata a metà e di fatto ha scontentato tutti, Bruxelles da una parte e la Cina dall’altra, deluse dal comportamento di Roma.

La mossa è piaciuta agli Usa, con più di un dito puntato verso i cinesi. Attacchi, però, che lasciano il tempo che trovano: il duo Trump-Pompeo ha accusato Pechino “di aver creato il virus in laboratorio” e millantato prove, in un secondo momento dichiarate distrutte. Ma la doccia fredda per i due è arrivata dai “Five Eyes”, la rete di intelligence di Usa, Gran Bretagna, Australia, Canada e Nuova Zelanda, che di fatto, tramite un report, ha escluso che il Covid-19 sia un “prodotto” artificiale “made in China”.



Pechino ha minacciato d’annullare l’incontro Ue-Cina di settembre, in cui si dovrebbero pianificare gli investimenti reciproci. A Bruxelles non tornano i numeri cinesi e le informazioni circolanti sul Covid-19. Numeri su cui però è stato costruito il modello d’approccio italiano citato dal premier Conte come “esportabile”. Mentre la Gran Bretagna supera l’Italia nei decessi e la Germania spinge al massimo verso una fase 3 con tanto di campionato di calcio a porte chiuse, il Belpaese sembra galleggiare tra Cina, Usa e una politica estera bloccata in Libia così come in Afghanistan, dove l’impegno militare dovrebbe intensificarsi.



A traballare è tutto il sistema globalizzato nato dopo il 1945, che ha avuto in organizzazioni internazionali come la Wto (Organizzazione mondiale del commercio) il fulcro dello sviluppo mondiale economico e sociale. Sotto attacco l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) che non avrebbe vigilato a dovere sullo scenario Covid-19. Oltre a tutto ciò, spicca l’incapacità di aver imposto un sistema di calcolo internazionale, evitando discrepanze tra sistemi diversi. La Cina aveva informato l’Oms a dicembre, segnalando casi di polmonite “atipica” nella provincia dello Hubei, ma l’Oms non è andata sul posto per vigilare e prima ha preso per buona la notizia che il virus non si trasmette da uomo a uomo, poi ha mandato i propri funzionari in Cina solo l’8 febbraio. Da quel momento i numeri cinesi hanno cominciato a calare.

In virtù del rapporto stretto tra Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms, e il presidente Xi Jinping, di fatto il modello cinese viene esportato in Italia, primo paese europeo investito dal virus. Nonostante i traballanti numeri forniti dalla Cina, Roma decide di seguirne le orme e di fatto sarà così anche per Usa e Ue. Dopo l’esplosione dell’epidemia, però, le cifre fornite da Pechino diventano di giorno in giorno sempre più incoerenti. L’esplosione in Italia, in Spagna e in Gran Bretagna (il caso Germania lo abbiamo già trattato), e poi negli Stati Uniti hanno certificato un virus diverso da quello descritto in Cina, i cui numeri vanno moltiplicati per qualche decina. Stessa sorte per i dati italiani del contagio, da più parti ormai classificati come assai sottodimensionati.

Eppure Pechino ancora non ammette che il Covid-19 sia partito dalla Cina: i media locali, infatti, nella lettera Ue hanno eliminato il passaggio “il virus esploso in Cina e la sua conseguente diffusione nel resto del mondo nei tre mesi scorsi”. Gli europei hanno accettato il taglio, senza condividerlo, ma di fatto hanno messo nel mirino la Cina e due sono gli eventi, tenutisi a Wuhan, che alimentano i sospetti: i Mondiali militari a ottobre 2019 e la Fiera del cibo e del commercio a dicembre, a cui hanno partecipato circa 1.800 imprese provenienti da dieci Paesi.

“Serve un’indagine sull’origine del virus, mi pare evidente che ci sia stata una scarsa condivisione delle informazioni”, dice il ministro agli Affari europei, Vincenzo Amendola, in un’intervista al Foglio: una dichiarazione molto forte. Al contrario, Luigi Di Maio al Corriere della Sera ha descritto la Cina come “un partner, ma i nostri valori sono nella Nato”, escludendo ovviamente commissioni.

Sullo sfondo Trump accusa Pechino, anche in chiave di politica interna, visto che la Cina rappresenta “il nemico perfetto” per affrontare la campagna elettorale.

L’Italia sta in mezzo, tra gli Usa che minacciano di farla uscire dalla Nato in caso di 5G cinese e Pechino che impone la propria visione della pandemia, approccio molto simile a quello di Roma, da poco entrata nella fase 2.

Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto superiore di sanità, ricorda che l’impatto della fase 2 lo si vedrà dal 18 maggio e sempre a tal proposito l’aumento delle interazioni dal 4 maggio, con 4,2 milioni d’italiani che hanno ripreso a lavorare, sarà il vero banco di prova.

L’Italia ha basato la propria strategia d’approccio sul modello cinese, di fatto accettandone numeri e interventi, ma rimanendo “attiva” al 51% nella sua forza lavoro, più di altri paesi europei e in linea con le chiusure in Cina, molto “settoriali e strategiche”.

I numeri italiani dei contagi, come quelli cinesi, vanno moltiplicati per qualche decina e necessitano di ulteriori analisi a conclusione. La curva al ribasso ha riportato il paese a rivedere la luce, ma da più parti gli interrogativi sul modello crescono sempre più.

I prossimi 28 giorni diranno se il modello applicato porterà il Paese fuori dal guado, nonostante i dati dell’epidemia a livello globale non siano ancora in calo. L’Italia è avanti più o meno di un paio di settimane e quindi può analizzare con maggiore completezza le proprie curve, soprattutto quella lombarda, fuori tendenza con quella nazionale e ancora non del tutto stabilizzata, anche se i dati dei ricoveri lasciano ben sperare.