Dapprima irriso, poi sottodimensionato, infine riconosciuto e progressivamente temuto oltre ogni limite, il virus del Covid-19 non ha solamente devastato gli ospedali e bloccato un intero Paese. Esso ha anche travolto tutte le nostre prime linee sanitarie, rivelatesi debolissime quando non addirittura inesistenti. Abbiamo scoperto di essere il paese più fragile d’Europa per via del più alto numero di anziani e del più basso numero di posti letto. Costretti a costruire reparti di terapia intensiva in tempi record e ad aggiornare piani pandemici dimenticati nei cassetti, abbiamo dovuto approvare il varo di misure tra le più draconiane possibili e, per ottenere risultati, siamo ricorsi alla più letale delle armi di persuasione di massa: la paura.



Dai cortei di camion con le bare, opportunamente filmati, ai numeri dei deceduti scanditi ogni sera; dai palinsesti televisivi stravolti dai dibattiti sulla pandemia alla proclamazione dello stato d’emergenza, abbiamo assistito ad un regime di chiusure che è andato ben al di là dei cancelli di fabbriche e scuole, ma ha coinvolto le vite di tutti e di ciascuno, arrestando l’intera società anche nel suo respiro più intimo: la prova risiede in quanti hanno visto i propri cari trasportati d’urgenza in ospedale per poi non poterli più rivedere, nemmeno per le onoranze funebri. La “luce” – per riprendere l’immagine data dal presidente Draghi – è stata effettivamente “spenta” e sono intere regioni del Paese ad aver conosciuto un tale infinito dolore.



Sono fatti noti a tutti. Ma ricordarli aiuta a comprendere perché una tale paura, una volta lasciata correre, quando non addirittura consapevolmente diffusa per ragioni di sicurezza, non rientri poi nel suo alveo quando i numeri si riducono, raggiungendo livelli vicini alle poche unità. Così, anche oggi, che le terapie intensive riguardano poche decine di casi ed i decessi sono stratosfericamente inferiori a quelli delle altre patologie, il terrore per il contagio non solo è rimasto a dirigere i comportamenti collettivi, ma si è anche decisamente esteso. Qualunque presa di posizione tendente a ricondurre i timori nell’ambito del ragionevole è tacciata di superficialità: l’elenco dei virologi stigmatizzati, quando non addirittura minacciati dai fantomatici “social” per avere proferito visioni rassicuranti sul virus, si fa sempre più nutrito.



Un tale atteggiamento non ha alcunché di innaturale ma è conseguente alle modalità con le quali, in Italia, la pandemia è stata percepita ed è attualmente vissuta. Così, all’Università di Bologna, una studentessa senza green pass ha dovuto fare i conti con la reazione della sua insegnante che ha interrotto la lezione, ma anche con quella dei suoi compagni che l’hanno verbalmente aggredita per essersi presentata nell’aula universitaria senza il fantomatico lasciapassare.

Una tale paura, per di più, non riguarda solo la maggioranza timorosa del contagio, ma anche l’universo degli stessi perplessi nei confronti del vaccino. Tanto i dubbiosi nei confronti di quest’ultimo (che siano potenziali no vax o meno), quanto i timorosi del contagio hanno nella paura il loro principale riferimento. Ma la paura genera con sé l’intolleranza e la nostra Italia, tradizionalmente disposta ad adattarsi, si scopre spettacolarmente rissosa e intransigente.

Un simile scenario non si spiega solo con l’errore delle autorità di avere fatto ricorso alla paura come principale arma di dissuasione di massa, ma fa affiorare disagi più profondi che non sono stati minimamente messi in preventivo. In una società che da decenni ha perso fiducia nelle istituzioni e da vent’anni ristagna in una crescita zero; in una collettività nazionale dove tutti i progetti, tanto personali quanto collettivi, sono stati riposti nel cassetto dei sogni e l’attivismo del benessere personale è l’unico a dominare, non c’è oramai pandemia che non spaventi.

Là dove ogni futuro sembra farsi sempre meno visibile e l’incertezza regna sovrana è la vita sociale a rendersi precaria e indefinita. Più le relazioni si fanno effimere e fragili, tanto più sono la vita fisica ed il benessere del qui ed ora, a rendersi indispensabili. L’intransigenza che emerge e si afferma è allora la reazione di difesa nei confronti di un minimo vitale che si percepisce minacciato e, con una tale reazione, è un intero paese ad andare fuori controllo. Attenuare i toni e sbarazzarsi di uno stato di continua allerta che persiste anche quando i numeri sono irrisori, diventa un obiettivo inaggirabile e non rinviabile. 

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