La borsa di Milano ieri ha chiuso con un calo del 2,8% sostanzialmente in linea con la borsa francese, -2,7%. In Europa i ribassi sono stati diffusi: la migliore borsa continentale, la Spagna, si è fermata a -0,7%, mentre quella tedesca è scesa dell’1,4%. Secondo Bloomberg, il mercato delle opzioni mostra che gli investitori “si stanno precipitando a proteggersi da ulteriori cali in Europa sulla scorta della confusione politica in Francia. Non è chiaro se questi movimenti siano esacerbati dall’effetto weekend oppure se ci sia panico generalizzato”. Nella migliore delle ipotesi, quindi, gli investitori non hanno intenzione di esporsi a ciò che potrebbe emergere dalla politica francese ed europea nelle prossime 48 ore e quindi rischiare di farsi trovare impreparati lunedì mattina. Se non è “panico generalizzato” poco ci manca.
Per il Wall Street Journal, “gli investitori si liberano delle azioni europee” a causa della confusione politica francese. Lo spread Francia-Germania ha chiuso ai massimi dal 2017 e ieri gli investitori hanno venduto euro per comprare dollari mandando il cambio sotto 1,07.
I toni con cui vengono descritti i movimenti che si sono visti sui mercati azionari e obbligazionari europei non sono tranquillizzanti; di queste vicende non c’era però quasi traccia sui media italiani occupati dalla cronaca del G7. La questione sul tavolo è una possibile crisi del debito in Francia in caso di vittoria del Rassemblement National di Marie Le Pen alle prossime elezioni per l’Assemblea nazionale francese. Si teme che la compagine politica che potrebbe emergere vincente rigetti le politiche fiscali europee. Anche a sinistra di Macron il programma elettorale include una marcia indietro su molte delle riforme economiche del Presidente. I mercati, pertanto, stanno reagendo alle prime avvisaglie di quella che potrebbe essere una riedizione della crisi dei debiti sovrani europei; con la differenza che, rispetto alla prima, dall’altra parte della barricata non ci sono la Grecia o l’Italia che si affretta a designare Monti, ma la Francia. Questa possibilità basta e avanza per giustificare quello che si è visto sui mercati europei negli ultimi cinque giorni e cioè dal risultato delle europee e dalla decisione di Macron di convocare le elezioni.
Ma c’è un altro spread che si aggira per l’Europa in questi mesi. Non è quello dei debiti, ma quello dei prezzi dell’energia elettrica. Ieri Mario Draghi, nel suo discorso di ringraziamento per il Premio europeo Carlo V, ha dichiarato: “Dobbiamo costruire un vero mercato di energia per aumentare la produttività del continente”. Il tema è urgente, perché tenere insieme un continente che ha membri con prezzi dell’elettricità a 20 (euro a megawattora) come la Spagna e altri a 60 o 100, come l’Italia, nel lungo termine è molto complicato. La crisi energetica italiana e tedesca, anche ammettendo che le rinnovabili possano essere la soluzione, e c’è da dubitarne, non si risolverà nei prossimi mesi. La pervasività degli effetti di queste differenze sui sistemi industriali è tale che si può tranquillamente parlare di un altro spread.
Vista da fuori, l’Europa non sembra un continente più unito rispetto a quello del 2021, ma più diviso. È diviso, come mai accaduto prima, dai mercati energetici, che sono il pilastro di qualsiasi sistema industriale avanzato, e, potenzialmente, da una frattura tra la Francia, uno dei due Paesi insieme alla Germania su cui si regge l’Unione, e il centro. Non occorre lavorare molto di fantasia per immaginare gli scossoni che si genererebbero nell’Unione se la Francia aprisse un fronte con le regole europee, mentre i tedeschi sono all’angolo per la fine delle forniture di gas russo e per la guerra commerciale che si prospetta. La priorità assoluta dei tedeschi è il salvataggio del sistema industriale e non il welfare dei francesi.
Non importa che l’Italia non sia l’attore principale di questa crisi. L’Italia, per quanto docile alle richieste europee, ha un debito pubblico elevato, i costi energetici più alti d’Europa e viaggia sui binari rigidi della transizione energetica che ha tra le poche certezze il costo e un orizzonte temporale medio-lungo. In questo scenario gli Stati Uniti, nonostante le divisioni politiche e un deficit commerciale e fiscale fuori scala e insostenibile, appaiono come un rifugio non tanto in termini assoluti quanto relativi; il caos in Europa li favorisce perché dirotta verso Washington i capitali in fuga dell’Unione.
L’Europa non è uno Stato e a ricordarcelo è stata proprio, questa settimana, MSCI, uno dei maggiori emittenti di indici, che ha deciso di non includere i debiti dell’Unione Europea negli indici dei debiti sovrani facendo mancare all’Ue una parte della domanda globale di obbligazioni governative.
È lecito chiedersi se le fratture presenti e future dentro l’Europa e lo scenario internazionale rendano ancora attuabile il processo di unificazione europea.
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