Le lacrime. Nei momenti in cui i governi devono decidere sacrifici il suggello viene posto dal pianto di una ministra. Quasi nove anni fa fu Elsa Fornero a commuoversi pensando ai pensionati per i quali aveva disposto che non ci sarebbero stati aumenti negli anni a venire. Ieri è toccato a Teresa Bellanova interrompersi in diretta a reti unificate, tirare su dal naso e riprendere a parlare a proposito del lavoro nero nelle campagne. Stavolta non si trattava di congelare assegni e dire agli anziani che sarebbero diventati un po’ più poveri: il suo è stato un pianto di gioia perché “da oggi gli invisibili saranno meno invisibili e lo Stato è più forte del caporalato”.



E Italia viva, con il suo piccolo gruzzolo di parlamentari, è più forte del M5s, primo partito alle Camere. Perché il braccio di ferro più serrato si è svolto proprio sul caporalato e la regolarizzazione di 600mila stranieri destinati a fare da braccianti nei campi. Di Maio aveva puntato molto sull’altolà a questa parte del decreto “monstre” strizzando l’occhio a quella parte del suo elettorato che ancora pende verso il versante sovranista, sempre memore dell’indicazione che in estate Salvini diede a Mattarella: Giggino a Palazzo Chigi per tenere insieme la vecchia maggioranza. Malridotto dal caso di Silvia Romano, acciaccato dalle ultime mosse del guardasigilli Bonafede (suo protetto), l’ex capo politico del M5s non è riuscito a imporsi nel provvedimento.



L’equilibrio dell’esecutivo si è dunque spostato sull’asse Pd-Iv con l’appoggio esterno dei sindacati, che senza grandi clamori incassano una nuova infornata di assunzioni pubbliche nella scuola e mettono in difficoltà l’imprenditoria, che esce con le ossa rotte dopo che il governo ha confermato la scelta di mettere i “padroni” contro i lavoratori. Cantieri e grandi opere non ottengono agevolazioni dalla burocrazia che li opprime, mentre per le piccole aziende e i commercianti vengono sì promessi soldi a fondo perduto, ma in una misura che non consente loro di rovesciare la situazione. Per le imprese, cioè per chi deve dare lavoro al Paese, sono in arrivo soprattutto ostacoli, in certi casi insormontabili. E il rilancio, che pomposamente dà il titolo al decreto, non s’intravvede.



Il provvedimento è la fotografia dell’attuale maggioranza: privo di una visione strategica e dominato da regole e regolette che, nelle intenzioni, dovrebbero sostituirsi a una coesione morale e ideale che latita. Il decreto è il frutto di interminabili litigi e di slittamenti continui, come dimostra la sua mole abnorme: da un rinvio all’altro, al momento di chiudere i conti la quantità di materie da disciplinare è spaventosa. Se il tempo è denaro, accumulare ritardi significa perdere soldi. E ancora una volta, l’ingente spiegamento di forze mediatico (diretta televisiva fiume all’ora di cena, con un ministro per ogni partito a piantare la propria bandierina) è inversamente proporzionale alla “poderosa” forza delle misure varate.

La montagna di articoli è anche il segnale della debolezza di Conte, cioè di colui che dovrebbe fare sintesi tra le diverse forze della coalizione mentre se ne dimostra incapace. La sintesi è l’opposto delle oltre 450 pagine di cui si compone il decreto. Questo obbrobrio giuridico e amministrativo sta a simboleggiare che la strada scelta da questo governo non è la coesione ma la spartizione. A ogni partito il suo contentino, ben sapendo che l’emergenza perdurante è il collante più tenace di questa maggioranza.

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