Sabato 30 settembre 2023 in extremis alla Camera dei Rappresentanti americana è stato trovato un accordo-tregua tra Repubblicani e Democratici per evitare lo shutdown che avrebbe consistito in una forte paralisi delle attività federali dato il mancato pagamento dal giorno successivo a una grande quota dei dipendenti federali degli stipendi, e per le attività reputate non essenziali addirittura la previsione del licenziamento immediato.
Tale accordo è valido fino al 15 novembre, cioè 45 giorni con i quali trovare accordi per una legge finanziaria più stabile e duratura; l’obiettivo sempre di avere una legge cornice di validità annuale. Questo accordo dell’ultima ora ha lasciato per ora due vittime al tappeto, e cioè la mancata concessione di ulteriori 6,5 miliardi di aiuti all’Ucraina e la defenestrazione dello speaker repubblicano alla Camera McCarthy dal suo incarico, azione condotta sotto la leadership della minoranza trumpiana. A questo quadro di riferimento, va aggiunto che il debito pubblico a stelle e strisce è giunto oramai a 33.100 miliardi di dollari, con un incremento nei soli ultimi 4 mesi di 1.000 miliardi, e tenendo conto che in questo momento la spesa per interessi sul debito giunge a circa 800 miliardi, con il budget della difesa a 1.000 miliardi.
Teniamo conto che il rendimento dei Treasury a 10 anni tocca o lambisce il 5%, in assoluto e anche ciò non accadeva dall’inizio degli anni 2000. L’inflazione per settembre viene da me stimata al 4,3%, il dato effettivo verrà pubblicato il 12 ottobre, mentre per come sono i livelli delle quotazioni internazionali del petrolio, già per ottobre si può ipotizzare un dato oramai certo tra il 4,5% e il 5%.
In tutta questa congerie di problemi veramente sensibili e che stanno divenendo sempre più gravi, il dollaro sta rafforzando le sue quotazioni sugli scambi internazionali nei confronti di tutte le divise, financo del rublo agganciato di fatto all’arma petrolio.
In più chiare lettere come si spiegano tali anomalie evidenti? Si spiegano, purtroppo, e si ripete purtroppo a causa del ruolo di riserva del dollaro a livello internazionale e della sua funzione di valuta benchmark per gli scambi internazionali, quote che lo ricordiamo sempre sono pari al 58% e al 72% circa.
Ma queste anomalie il primo livello di pericolo molto forte lo hanno per la loro proiezione temporale, in sostanza al coeteris paribus attuale non possono andare oltre i due anni, in quanto superato tale periodo indicativo di riferimento tutti i problemi strutturali di base di tipo macroeconomico e finanziario, non solo verrebbero a galla ma esploderebbero. Cioè, noi abbiamo che l’innalzamento in area del 5% del rendimento del Treasury a 10 anni implica un’eccezionale ondata di svendita sui mercati internazionali dei titoli americani, al contempo però con quel ricavato di vendita non si chiedono materie prime, altre divise ecc., ma si chiedono dollari di quello stesso Paese, gli Usa, assediato oramai da severi venti di crisi.
Siamo di fronte in questo momento a inquietanti fenomeni di isteresi, dovuti in automatico in prima battuta alla presenza di tanti meccanismi standardizzati di investimento finanziario condotti dagli Etf et similia; in sostanza, un algoritmo pre-impostato mette sempre a ogni vendita il riacquisto a una percentuale minima di dollari in quanto valuta di riserva. Dispiace dirlo, ma questo è lo stesso meccanismo sostanziale che obbligò Nixon nell’agosto del 1971 a dichiarare l’incovertibiltà di 35 dollari all’oncia d’oro; c’erano troppo dollari in giro e troppo poco oro per tenere in equilibrio il sistema. Mutatis mutandis, è la situazione odierna: troppi debiti da onorare senza falcidiarli di inflazione data la quantità di dollari in giro.
Non c’è nemmeno il tempo per difendersi da una nuova allocazione produttiva successiva al rimpatrio di tanti produzioni, dato che in sostanza un bene prodotto in Cina avrà il costo negli Usa anche di tre volte superiore; quindi, uno scenario simile agli anni Settanta: riduzioni produttive con innalzamenti enormi dei costi medi di produzione e una domanda che, sebbene in diminuzione, affronterà prezzi enormemente più alti.
La stagflazione è oramai alle porte, solamente che negli Settanta in Occidente non esisteva la quantità sterminata di debiti pubblici attuali: considerando anche il Giappone parliamo di un volume stratosferico di circa 55.000 miliardi di dollari, dove da padrone la fa il debito pubblico americano con appunto i 33.000 miliardi prima ricordati.
Non solo occorrono misure per fermare questa pericolosa corsa verso una crisi che farebbe impallidire il 1929, ma in aggiunta tocca fare in fretta. Da questo punto di vista, la Fed si troverà di fronte a scenari veramente pericolosi, dato che per eliminare i debiti, come disavanzi e debito pubblico fuori controllo, al giorno d’oggi esiste solo l’inflazione come medicina, in quanto affidarsi a ipotesi di crescite mirabolanti è del tutto illusorio.
Nemmeno gli Usa possono credersi isolati più di tanto dai destini dell’Ue, in quanto essendo le due aree fortemente correlate, la crisi di una si sposta rapidamente all’altra. Gli Stati Uniti sono dipendenti da flussi enormi di materie prime che gli devono giungere dall’estero per tenere in funzionamento il loro sistema produttivo così come è venuto a crescere in questi anni, e oramai la leva del debito per finanziare investimenti e consumi interni è giunta vicino alla saturazione. Saturazione che non viene ancora avvertita perché non si è rotto il meccanismo di tenere il dollaro come riserva, oppure, detto meglio, tale meccanismo è ancora robusto ma oramai in crisi.
Tutte queste considerazioni macroeconomiche e finanziarie hanno precise ricadute di linee politiche complessive da implementare, solo che non è materia di questi interventi analizzare le politiche complessive a tutto campo che la nazione si deve dare per affrontare queste criticità. Qui si può solo mettere in risalto che la leva del debito complessivamente intesa sta divenendo foriera per gli Usa di squilibri non recuperabili, ed è pertanto ovvio che una prima indicazione è smettere di creare disavanzi.
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