Dalle parti del Quirinale la preoccupazione ha raggiunto livelli parossistici. Il contagio dilaga, il governo balbetta, la piazza rumoreggia. Una miscela esplosiva, che allunga ombre sinistre sulle prossime settimane. Fosse per Sergio Mattarella la crisi verrebbe gestita in ben altro modo, ma il presidente della Repubblica non può certo imporre d’imperio la sua linea al governo.
La strada della collaborazione istituzionale viene indicata sin da marzo come l’unica possibile, ma Conte è sempre apparso recalcitrante a percorrerla. Un assenso a parole che mai, in nessun momento, si è tramutato in fatti concreti. Il modus operandi del premier si è visto con chiarezza estrema anche in occasione di questo nuovo Dpcm: di fronte alle resistenze delle Regioni, Conte ha forzato la mano, mettendo i governatori davanti al fatto compiuto della firma, nonostante la promessa di una nuova consultazione prima di chiudere la partita. Se sia Bonaccini che Zaia lamentano che il governo abbia ignorato le loro richieste, vuol dire che il problema non è semplicemente di schieramento. E sembra, comunque, che il Colle sia dovuto intervenire per evitare guai peggiori, cioè fughe in avanti (primo indiziato il campano De Luca), così da avere regole uguali su tutto il territorio nazionale.
Certo, Conte si è trovato bombardato da tutte le parti: non solo governatori e sindaci, ma anche le singole categorie produttive e gruppi di interesse. Di fronte a un passaggio molto complesso è parso più che mai debole e indeciso. E ancora una volta ha ignorato, di fatto, l’opposizione, limitandosi a una frettolosa convocazione dei capigruppo parlamentare, accompagnata da una breve telefonata ai leaders, senza accogliere, come al solito, alcun suggerimento. Non è un caso che gli amministratori leghisti abbiano esaminato domenica con Salvini persino l’ipotesi di un ricorso al Tar contro il nuovo Dpcm. È l’indice di una incomunicabilità, totale, che si trasforma in uno scontro frontale.
Siamo sideralmente lontani da quel “coro sintonico delle nostre istituzioni” auspicato da Mattarella. Quello che vorrebbe il Quirinale, come richiesto pubblicamente anche da Matteo Salvini, è un tavolo permanente di consultazione fra maggioranza (peraltro profondamente divisa al proprio interno) e centrodestra, tanto in questa fase di emergenza, quanto nel momento in cui si dovrà progettare (anzi ri-progettare) la ripartenza. Si devono fare scelte che peseranno per decenni. Se non saranno condivise, al primo cambio di maggioranza (e prima o poi ci sarà), tutto verrà rimesso in discussione, gettando al vento tempo e denari.
Ci sono anche gli incidenti di piazza di Napoli e Roma a preoccupare, e se ne parlerà anche domani, martedì, nel Consiglio supremo di Difesa, convocato al Quirinale. Le tracce dei fili della criminalità organizzata s’intravedono, ma la rabbia sociale sembra covare sotto la cenere, e sottovalutare il pericolo sarebbe irresponsabile.
Grandi responsabilità si collocano in questa fase poi sulle spalle del Partito democratico, fra le cui fila sembrano albergare i principali sostenitori della linea della massima cautela, della chiusura di tutto quel che si può chiudere. Tocca a Zingaretti e ai suoi scegliere se sia questo governo adatto o meno a guidare ancora l’Italia. Il rincorrersi di voci intorno alla richiesta di un rimpasto non possono lasciare tranquillo Conte: per lui potrebbe rivelarsi fatale l’apertura di una crisi sulla carta pilotata. Lo abbiamo già scritto, potrebbe essere il primo rimpastato.
Eppure l’attendismo del premier allunga di giorno in giorno le ragioni di scontro. In cima all’elenco c’è il ricorso al Mes, che non vedrebbe il Quirinale contrario, anche se Mattarella non potrà mai dichiararlo apertamente. Ma nella sua frase di sabato (“L’Unione Europea ha messo a disposizione strumenti che permettono di mobilitare risorse ingenti, è una opportunità che va colta per ammodernare il Paese”) in molti hanno visto un via libera al Mes, non fosse altro che per ammodernare una sanità che già è in affanno.
A marzo il coronavirus era un nemico sconosciuto, e che incuteva paura. Qualunque errore poteva essere perdonato. Oggi il sentimento prevalente è la rabbia per il tempo perso e i soldi buttati al vento (vedasi bonus monopattini o simili). Altri errori potrebbero rivelarsi fatali. Al Quirinale questa percezione sembra chiara. A Palazzo Chigi molto meno.