Il governo ce l’ha fatta, ha superato indenne il voto sulla riforma del Mes con margini ampi sia alla Camera sia al Senato. L’esito era chiaro già nelle ultime ore prima che il Parlamento si esprimesse. La fronda del M5s si era fortemente ridimensionata e l’appoggio esterno di Forza Italia non era più indispensabile, come sembrava alla vigilia. Alla conta dei voti, la drammatizzazione del pronunciamento delle Camere si è rivelata uno psicodramma interno al M5s: davanti al rischio di mandare tutti a casa con la responsabilità di avere innescato la miccia esplosiva, i grillini si sono rimangiati quanto da anni ripetevano contro il Meccanismo di stabilità e si sono riallineati, salvo una frangia rivelatasi ininfluente sugli equilibri della maggioranza.
Ma qualcosa di grave è successo ieri nel governo e non riguarda l’atteggiamento dei 5 Stelle. È la spaccatura tra Giuseppe Conte e Matteo Renzi, che il leader di Italia viva ha dichiarato a Palazzo Madama poco prima dell’ora di cena. La questione non riguarda il Mes, ma la gestione dei miliardi del Recovery Plan. Renzi ha sempre cannoneggiato il governo Conte, di cui fa parte, a suon di minacce che poi si sono sempre rivelate colpi a salve. Stavolta invece pare che faccia sul serio, al punto che il Consiglio dei ministri in programma ieri sera dopo il voto parlamentare e prima che il premier voli a Bruxelles è stato rinviato a data da destinarsi. Le posizioni sono talmente distanti che la riunione non sarebbe servita ad altro che a sancire le divisioni interne. E Conte si sarebbe presentato ai partner europei come il premier di un governo spaccato e incapace di decidere.
Dietro al derby Renzi-Conte c’è una seconda debolezza, ed è la scomodissima posizione del Pd. I democratici sono il partito di riferimento delle cancellerie europee e non possono sgarrare dalle richieste di Bruxelles. Tra queste c’è proprio quella di una governance del Recovery di tipo commissariale: niente ministri, pubbliche amministrazioni o burocrazie, ma una struttura parallela di stampo manageriale (almeno in teoria) in grado di prendere decisioni rapide e soprattutto aderenti alle linee guida che arrivano da chi sgancia il denaro, cioè l’Ue. Lo conferma un fatto semplice: allineato a Conte c’è il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, che è il portaordini di Bruxelles nel governo giallorosso. Se Gualtieri tace, è perché va bene all’Europa.
Il problema del Pd è che, da un lato, non si può dire che l’ennesima task force di Conte “la vuole l’Europa”; dall’altro, c’è il protagonismo del premier il quale vorrebbe approfittare della situazione per piazzare amici suoi senza ascoltare le richieste degli alleati. A Renzi non piace non toccare palla quando si devono gestire somme colossali che, nelle intenzioni, dovrebbero ridisegnare il Paese, e lo dice in faccia. Nemmeno al Pd piace, ma il partito di Zingaretti non può permettersi di battere i pugni e quindi lascia fare a Renzi il lavoro sporco. Ieri i capigruppo Delrio e Marcucci si sono sostanzialmente allineati al leader di Italia viva chiedendo, con toni meno accesi di Renzi, un maggiore coinvolgimento del Parlamento nella gestione dei fondi.
Dunque, non è che Italia viva e Pd intendano bocciare l’idea di una task force: vogliono trattare sulla composizione. Una questione di rappresentanza, anche se le opposizioni direbbero che è una faccenda di poltrone. A nulla sono servite le timide precisazioni di Conte. Ci vuole altro tempo per trovare una mediazione che si annuncia molto difficile.