Ieri il rendimento del decennale italiano ha toccato i massimi da luglio 2020; anche i rendimenti dei decennali francese e tedesco sono saliti ma meno che proporzionalmente. Infatti, lo “spread” tra Italia e Germania è salito oltre i massimi di gennaio 2021 quando la crisi politica italiana, prima dell’insediamento di Mario Draghi, invertiva un trend di discesa iniziato con la risposta della Bce e delle istituzioni comunitarie alla pandemia. Gli elementi sono quindi due: il rialzo dei tassi in Europa e non solo e l’allargamento dello spread che testimonia una divergenza tra Paesi europei.



Negli ultimissimi giorni i rialzi dei prezzi ci hanno consegnato in Spagna l’inflazione più alta dal 1992 e ieri la componente prezzi dell’indice pmi di Chicago ha segnato il livello più alto degli ultimi 42 anni. Dato che elettricità, prezzi del gas e petrolio hanno appena cominciato a essere incorporati nei prezzi dei beni e che i problemi sulle catene di fornitura globali non stanno migliorando gli investitori cominciano a scontare un rialzo dei tassi nonostante le rassicurazioni delle banche centrali; oppure semplicemente non sono più disposti a sottoscrivere a questi tassi visto che l’inflazione rimarrà alta. 



Per le banche centrali si apre un dilemma: l’inflazione non è transitoria e rischia di accelerare e in compenso la crescita sta rallentando per via dei problemi sulla componentistica. Negli Stati Uniti a settembre le retribuzioni mensili sono scese dell’1% rispetto ad agosto, contro attese di un calo dello 0,3%. Le banche centrali, già in ritardo, oggi dovrebbero alzare i tassi, per contrastare l’inflazione, alla vigilia di un rallentamento economico. La classe media, come da copione, paga subendo inflazione cattiva; non è chiaro se in questo scenario possano reggere anche le quotazioni dei listini. È possibile che si assista a un incremento della volatilità perché il sistema, anche politicamente, in questo modo non regge con i salari che salgono molto meno dell’inflazione.



Il secondo elemento è più intrigante. Ieri oltre al rialzo dello spread abbiamo avuto due movimenti interessanti: il rafforzamento del franco svizzero contro l’euro e soprattutto un brusco rafforzamento del dollaro contro la valuta comune. Il minimo che si possa dire è che l’Europa appare sui mercati come particolarmente fragile in questo contesto sia come insieme unico, sia nella prospettiva che si aprano fratture tra Paesi membri. Non sveliamo alcun segreto quando diciamo che dentro l’area comune convivono Paesi che hanno sensibilità molto differenti sull’inflazione, con deficit e debiti su Pil divergenti e saldi netti delle esportazioni rilevanti o nulli. La Bce può continuare a dire che l’inflazione è transitoria e finanziare i debiti pubblici dei Paesi meno disciplinati, Francia inclusa ovviamente, ma a quel punto con l’inflazione che galoppa e la valuta che si indebolisce emergerebbero prepotenti perplessità politiche mai sopite. È difficile risolvere tutto con un giro di “austerity” in un contesto geopolitico sfidante come questo soprattutto se la situazione è critica e anche la Francia passa tra i cattivi. La transizione verde che devasta il sistema industriale europeo già piagato dai problemi sulle forniture, prima ancora che essere discutibile e un sogno pericoloso, è oggi un cambiamento che semplicemente l’Europa non si può permettere; e l’Italia ancora di meno. Chi persegue su questa strada dato il contesto può solo andare a sbattere.

Le prospettive economiche dell’Unione europea rispetto agli altri attori globali, le tensioni tra Paesi europei, le varie ipotesi di frattura oggi non sono più di moda nel dibattito pubblico e politico. Eppure, diversi elementi lasciano pensare che i “mercati” siano pronti a riprendere il filo del discorso. 

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