Il referendum che doveva confermare il taglio lineare dei parlamentari passa con una maggioranza netta, tanto da far diventare Giggino Di Maio un personaggio storico. Sarà lui, il nostro incredibile ministro degli Esteri, che verrà ricordato nei libri come l’alfiere e il “goleador” decisivo dell’antipolitica italiana militante, l’erede del destino scritto dopo il putiferio generale cominciato in Italia con il 1992.



Nella cosiddetta “Costituzione più bella del mondo” vengono modificati di fatto due articoli, senza un autentico dibattito e senza una riforma complessiva, ma per motivi prevalentemente di risparmio: lo 0,007% del bilancio statale. Quasi una comica rispetto a uno stock di debito nel rapporto con il Pil che si avvia verso il 160%, ma soprattutto con un taglio alla rappresentatività popolare senza una riforma razionale e in linea con una rivisitazione necessaria di tutto il testo costituzionale e della funzione del Parlamento, non solo nel dibattito tra forze politiche, ma anche nella funzione di legiferare, con due Camere che spesso si sovrappongono.



Per il momento, la coalizione di governo tra il Movimento 5 Stelle e il Partito democratico, con l’asse tra Di Maio e il segretario Nicola Zingaretti, ha retto e sembra addirittura che si sia rafforzata. Eppure è sempre più evidente che questa maggioranza è minoranza nel Paese.

Ci sono paradossi palesi e stridenti in questo rafforzamento del governo: la mancanza di un’alternativa credibile innanzitutto, con un centrodestra dove la destra quasi cancella spesso anche una parvenza di centro.

Se questo riguarda la qualità politica complessiva dell’Italia di questi anni, un altro grande paradosso viene dal voto nelle regioni: dove il centrosinistra ha vinto, non esiste mai una maggioranza unita tra le due forze della coalizione di governo. Nell’unica regione dove si è raggiunto l’accordo tra M5s e Pd, cioè la Liguria, è il centrodestra di Giovanni Toti che vince in tutta sicurezza. Se si fa, infine, il bilancio complessivo del risultato del voto regionale, si assiste a un pareggio: 3 regioni al centrodestra (Veneto, Marche, Liguria), 3 regioni al centrosinistra (Toscana, Puglia, Campania). Bisognerebbe calcolare infine la Valle d’Aosta, che però con uno statuto speciale fa storia a sé, anche se la Lega risulta il primo partito.



Se si alza quindi lo sguardo a un livello più complessivo, si può dire che emerge un ulteriore paradosso: insomma, a un governo nazionale a maggioranza M5s e Pd, si contrappongono quindici, su un totale di venti, Regioni governate dal centrodestra. In tre anni, dal 2017, si è rovesciato perfettamente il rapporto. Allora era il centrosinistra a governarne quindici contro cinque.

Ma i paradossi di questa situazione politica italiana non finiscono mai. Se il referendum ha avuto un grande successo c’è un sondaggio (fatto circolare) che indica che i simpatizzanti del Pd, al 55%, hanno votato No al referendum contro l’indicazione piuttosto tortuosa del segretario Zingaretti per il Sì di Di Maio e la compagnia grillina. È un contrasto sin troppo palese. A questo punto “il Sì che aprirà le riforme”, come ripete ossessivamente Zingaretti, deve essere stabilito al più presto e diventa difficilmente rinviabile, come la legge elettorale e i nuovi collegi e circoscrizioni da ridisegnare, per votare salvaguardando il massimo di rappresentatività.

Poi c’è la questione del rafforzamento della sanità con un prestito a portata di mano, già pronto e di ben 37 miliardi che il Mes (Meccanismo europeo di stabilità) è pronto a erogare. Ma su questo punto c’è una divisione secca tra pentastellati e Pd che solo il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, cerca di minimizzare, sostenendo che alla fine si troverà un accordo secondo i criteri di “un buon padre di famiglia”. Mentre Zingaretti tenta di esorcizzare il prestito del Mes, una volta non parlandone, un’altra volta sostenendo che alla fine si troverà un accordo.

Ma stiamo elencando solo due punti di un’alleanza nata per stato di necessità, tra due forze diversissime, che hanno solo l’obiettivo di evitare elezioni che potrebbero portare il centrodestra al governo e la frantumazione di un governo che litiga su tutto e vivacchia cercando di guadagnare tempo in un modo che potrebbe diventare esasperante. In una situazione sociale, politica ed economica drammatica.

Infine c’è il problema principale: i piani da presentare con puntualità e credibilità per i 209 miliardi da ottenere in Europa con il Recovery fund. Il tempo per ottenere tutto questo non è illimitato ed è abbastanza azzardato sperare in “rimbalzi”, come predica con strana insistenza e speranza senza riscontri lo storico, improvvisatosi economista, ministro Roberto Gualtieri.

Continuare in questa situazione sembra un’impresa incredibile, eppure, dopo il “pareggio” di ieri e il grande successo nel referendum, il governo Conte, l’esecutivo più paradossale della storia repubblicana, difficilmente cadrà. Dopo il taglio di deputati e senatori e la lenta erosione dei voti della cosiddetta maggioranza, quello che appare agli analisti più attenti è un “Parlamento di disperati” che, speriamo, cercherà almeno di assolvere il necessario.

È vero, c’è un’incertezza sanitaria rispetto al Covid-19 inquietante, c’è all’orizzonte una crisi economica che può trasformarsi in disastro, ci sono scadenze sulla cassa integrazione e lo sblocco dei licenziamenti con la chiusura di imprese che fa paura. Gli ostacoli sono tanti e la possibilità di una caduta non può essere scartata. Ma il Paese, spaventato e provato, si aggrappa a quello che ha a disposizione al momento. È la grande forza del probabilmente incrollabile “governo del paradosso”.