Come si è definitivamente chiarito nella giornata parlamentare di ieri, la crisi è stata solo innescata dai 5 Stelle, ma il malessere era ben più profondo ed esteso tra la maggioranza che sosteneva il Governo.
Silvio Berlusconi più di una settimana fa aveva “consigliato” Draghi sul da farsi: rimpasto di Governo con esclusione dei 5 Stelle allo scopo di poter procedere in maniera compatta sui dossier principali. Salvini (ed ultimamente anche Giorgetti) avevano manifestato riserve sulla linea governativa e preannunciato che si sarebbero messi alla finestra ed avrebbero votato solo i provvedimenti ritenuti necessari, con ciò notificando la loro autoesclusione dalla maggioranza. La scissione di Di Maio, col senno del poi, si è rivelata funesta, perché ha acceso la miccia dell’implosione nel Movimento ed ha esasperato il già esasperato Conte.
Insomma una larga fetta del Parlamento (un pezzo dei 5 Stelle, Forza Italia, Lega più Meloni) aveva già annunciato la fine dell’esperienza governativa. Resta da capire perché sia Draghi che Mattarella abbiano tirato dritto per la loro strada; perché Mattarella non abbia accettato le dimissioni di Draghi, aprendo così la strada al Draghi bis e dunque alla possibilità di chiudere la legislatura secondo la sua naturale scadenza; perché Draghi si sia ostinato a ritenere indispensabili i 5 Stelle (ma poi quali? tutti? solo Di Maio? anche Conte?) per proseguire nell’agenda di Governo e perché poi abbia pensato che le manifestazioni di piazza potessero influire sulle decisioni parlamentari.
In fondo il Governo dei due Presidenti, nato “senza formula politica”, avrebbe dovuto continuare su quella strada, senza fare valutazioni politiche, con la sola finalità della convergenza sugli obiettivi: Pnrr, gestione della crisi internazionale, pandemia… Oppure la spiegazione è proprio lì: il Governo dei due Presidenti ha pensato di poter prescindere dal contesto politico interno, scommettendo sulle pressioni internazionali (poche per la verità) e sull’autorevolezza della figura del Presidente del Consiglio. Il problema è che nella forma di governo parlamentare il conto con i partiti bisogna farlo, piaccia o non piaccia.
Insomma difficile dare una paternità ed una maternità certe a questa crisi che sembra, come diremmo noi giuristi, il combinato disposto di una serie di fattori convergenti e, anche, di errori convergenti.
L’errore più vistoso è forse quello di aver in questo modo ostacolato la possibilità per Draghi di portare a termine la legislatura e di potere nell’autunno varare i numerosissimi decreti attuativi delle riforme fatte dal Parlamento. È vero che tecnicamente questo rimane possibile (anche un diverso Governo può proseguire quel lavoro, posto che le deleghe vanno onorate), ma il tema è quando, se si va ad elezioni, si riuscirà a varare un nuovo governo.
Dopo quello che è successo ieri un reincarico a Draghi mi pare una prospettiva assai complicata, anche dal punto di vista delle relazioni personali. Qualcosa si è davvero rotto non solo nella dinamica politica, ma anche e soprattutto nelle relazioni fiduciarie personali. L’atteggiamento di Silvio Berlusconi di ieri nei confronti di Draghi è stato emblematico: sembra trascorso un secolo da quando il presidente di Forza Italia volle guidare la coalizione per la formazione del Governo per dimostrare a Draghi tutta la sua fiducia.
Assai complicata mi pare poi la prospettiva di un governo di transizione, mancando lo scopo. Sia perché mancano pochi mesi alla fine naturale della legislatura, sia perché l’unico vero obiettivo potrebbe essere quello della modifica della legge elettorale, su cui, tuttavia, non c’è accordo. L’attuazione del Pnrr, per quel poco che si è inteso, non dovrebbe subire sconquassi, poiché le strutture tecniche che devono presidiarla non cadono con il Governo ma rimangono in piedi sino al 2026. Allo stesso modo la modifica dei regolamenti parlamentari è praticamente in dirittura di arrivo e dunque consentirà al nuovo Parlamento la sua funzionalità.
A questo punto andare alle elezioni il più in fretta possibile è l’unico modo per uscire dalla crisi di governo ed assicurare così un nuovo governo al Paese possibilmente già nel mese di ottobre.
A questo proposito sarebbe forse utile che i partiti, oltre a preparare la campagna elettorale, preparassero già anche il dopo, pensando a figure di “federatori” delle rispettive coalizioni da proporre come Presidenti del Consiglio, non necessariamente tecnici. Se rimane questa legge elettorale, infatti, la frammentazione è sempre possibile ed anche una vittoria del centrodestra, senza effetto maggioritario vero, potrebbe riproporre instabilità in Parlamento. Occorrono dunque figure di coesione, che rassicurino i mercati e gli attori internazionali e sappiano tenere in piedi ed in equilibrio le coalizioni.
Più che i programmi (il Pnrr sino al 2026 è il vero programma politico) servono personalità che non dividono ma che uniscono, con un’esperienza politica robusta e con rapporti internazionali solidi.
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