Tutte le forze politiche hanno lo stesso e cruciale interesse nelle crisi di governo che possono condurre allo scioglimento anticipato delle Camere: scaricare la responsabilità sugli altri. E lo stesso vale per il capo dello Stato e per il presidente del Consiglio. Il primo, perché deve dimostrare di aver operato per la stabilità delle istituzioni; il secondo, perché il suo futuro dipende dalla capacità di mostrarsi incolpevole rispetto alla crisi che ha colpito il suo governo.



Nell’attuale situazione di crisi la ricerca delle responsabilità si ingarbuglia.  Perché, al di là di qualunque ipotesi complottistica, tutto è precipitato con la frattura del M5s ad opera dei nuovi gruppi parlamentari creati attorno alla figura del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Frattura, per di più, giustificata da ragioni politiche esposte con particolare durezza dallo stesso ministro. A cascata, ne è derivata la divaricazione tra l’originaria composizione della coalizione di maggioranza e la nuova articolazione dei rapporti di forza in Parlamento. Ed è diventato immediatamente obsoleto l’accordo che aveva determinato la struttura dell’esecutivo e dunque la distribuzione degli incarichi ministeriali.



Nella storia repubblicana, innanzi a questi episodi di riarticolazione e redislocazione delle forze parlamentari rispetto all’originaria coalizione di maggioranza, si è sempre ricorso alla repentina “verifica” istituzionale, spesso sollecitata dallo stesso capo dello Stato. Ricordiamo, ad esempio, il caso di Follini che si allontanò dalla coalizione di governo, o quello dei “responsabili” che invece vi si aggiunsero. Nel primo caso venne avviata la formazione di un nuovo Governo; nel secondo caso, le Camere rinnovarono la fiducia al medesimo Governo con l’ufficializzazione della mutata composizione della maggioranza parlamentare. In altre parole, di norma è stato necessario un passaggio istituzionale per ristabilire o per confermare ufficialmente la coerenza tra l’esecutivo e la mutata maggioranza parlamentare.



Stavolta nessun passaggio chiarificatore è stato avviato, né è stato richiesto dal capo dello Stato. Con l’effetto inevitabile che la frattura interna al M5s  si è repentinamente riflessa sul Governo, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Perché ciò non sia avvenuto non è chiaro. Forse il Colle ha temporeggiato perché il presidente del Consiglio non si è mostrato disponibile ad affrontare questa sfida?

In effetti, alcuni elementi depongono a favore di questa ricostruzione. Soprattutto se si pensa alle tre rigide condizioni poste dal presidente del Consiglio proprio prima del voto di fiducia in Senato sul decreto-legge “Aiuti”. Avrebbe posto termine al suo incarico se il M5s fosse uscito dalla maggioranza; non avrebbe accettato di formare un nuovo governo con una maggioranza diversa dall’attuale; e non avrebbe continuato a guidare un esecutivo se fosse stato sempre più indebolito dalle fibrillazioni prodotte dalle opposizioni interne.

Draghi, insomma, si è voluto sottrarre dal pubblico confronto con il cambiamento della coalizione. Il perché è chiaro: non è disposto a riscrivere la formula di maggioranza, la composizione dell’esecutivo e gli impegni di governo. Ma l’ottimismo della volontà, come noto, raramente coincide con la durezza della realtà. E allora, la parlamentarizzazione della crisi, che si preannuncia in queste ore, potrebbe ridursi ad uno strumento improduttivo o, al più, meramente certificatorio di una fine annunciata o addirittura voluta. Salvare il Governo Draghi è diventata un’operazione sempre più difficile.

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