Il guardasigilli Marta Cartabia esulta per avere portato a casa la riforma della giustizia formato Pnrr. Ma i grillini formato Giuseppe Conte non possono lamentarsi. In mattinata hanno bloccato il Consiglio dei ministri: erano riuniti con l’ex premier. Quello attuale ha capito che i 5 Stelle facevano sul serio e ha ordinato l’ultima mediazione. Braccio di ferro a oltranza, e alla fine la ministra ha annunciato la quadra che si riassume molto brevemente: tempi più lunghi per i processi. Per i primi tre anni di applicazione della riforma il processo d’appello sarà più lungo di un altro anno e quello di Cassazione di altri sei mesi; per alcuni reati gravi (mafia, spaccio internazionale di droga, violenza sessuale, terrorismo) i giudici di appello potranno disporre ulteriori allungamenti.



In cambio, le forze di maggioranza si sono impegnate a ritirare tutti gli emendamenti “con l’obiettivo di concludere nei prossimi giorni”. La nota sull’accelerazione non va considerata superflua: la prossima settimana dovrebbe arrivare la prima fetta di finanziamenti europei e il governo non poteva farsi cogliere ancora in mezzo al guado; inoltre, scatta il semestre bianco che precede l’elezione del capo dello Stato. L’esecutivo Draghi sembra dunque messo al riparo da crisi. È davvero così? Le incognite non sono tutte fugate: il nuovo testo della riforma si conoscerà soltanto nelle aule parlamentari e non è affatto detto che spariranno le pressioni per ulteriori modifiche.



Gli emendamenti dei partiti non sono le uniche armi usate contro la nuova giustizia, e comunque i grillini si sono impegnati a ritirare gli emendamenti, non a stendere il tappeto rosso a Mario Draghi: sicuramente non lo farà Conte, che non ha nulla da perdere nel contestare l’operato di chi gli ha tolto la poltrona di Palazzo Chigi. C’è da fidarsi di ministri che per due volte hanno votato la riforma per poi voltarle le spalle? Avrà di che esultare anche il mondo che ruota attorno al giustizialismo del Fatto Quotidiano perché ha ottenuto quello che chiedeva e ora non se ne starà certo zitto. Nemmeno i magistrati abbasseranno il tiro contro il guardasigilli, come dimostra l’ennesima bocciatura del Csm al meccanismo dell’improcedibilità. Il blocco di potere togato è ancora molto forte e non smette di condizionare la politica. Forse la vera riforma della giustizia che serve al Paese, più che quella appena varata, è quella contenuta nei referendum radical-leghisti – poi appoggiati anche da Forza Italia e Matteo Renzi – con la separazione delle carriere, il ridisegno del Csm e la responsabilità dei giudici.



Nonostante abbia incassato il risultato atteso, il premier esce indebolito dalla battaglia sulla riforma Cartabia. Lo rileva pure un articolo della Stampa di ieri che disegna inquietanti scenari quirinalizi. Marcello Sorgi non solo prevede che Mattarella rinvierà Draghi alle Camere se qualche partito di maggioranza volesse provocare la crisi, ma arriva addirittura a ipotizzare “un governo elettorale, forse perfino militare, com’è accaduto con il generale Figliuolo per le vaccinazioni”. Escludendo che Sorgi possa immaginare un golpe in divisa da alpino, non resta che pensare a un “pizzino” in codice rivolto proprio a Palazzo Chigi.

È come se il Colle evidenziasse la debolezza di Draghi al punto da fare balenare una sua sostituzione. “A mali estremi, estremi rimedi”, scrive Sorgi. È un “memo” per ricordare che Draghi sarà pure un salvatore della patria, ma senza Mattarella non sarebbe premier, e senza Mattarella che faccia da garante con l’inquieta galassia giudiziaria, la riforma della giustizia resta fortissimamente a rischio. Così l’uomo del Quirinale fa capire che senza di lui si finisce male, e che tra sei mesi i Grandi elettori dovrebbero ricordarsene.

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