Il ministro per la Pubblica amministrazione ieri ha celebrato la revisione al rialzo delle stime di Pil per l’Italia dell’Istat con una crescita attesa per il 2021 del 6,3% e del 4,7% per il 2022. Dati che, secondo Brunetta, evidenziano che “le scelte di buon senso fatte finora dal Governo Draghi sulla gestione della crisi hanno funzionato”. La crescita del 2021 si confronta con un anno tremendo, il 2020, chiuso con un calo del Pil superiore all’8% con l’economia italiana congelata per lunghi mesi dal più duro e lungo lockdown al mondo dopo quello cinese.
Il Pil è un indice che può essere fuorviante; incorpora l’inflazione e riflette gli effetti di politiche che in realtà non comportano un rafforzamento strutturale della competitività di un Paese. La “spesa improduttiva” finisce nel Pil esattamente come l’apertura di un nuovo stabilimento, ma, evidentemente, non è la stessa cosa.
È una premessa inevitabile perché da settembre si osserva una divaricazione tra i numeri della contabilità ufficiale e una miriade di piccole notizie che invece fanno intravedere un altro scenario e prospettive su cui sarebbe meglio avere cautela. Compaiono sempre più spesso notizie di impianti chiusi o temporaneamente fermi a causa dell’impennata insostenibile dei costi energetici: impianti di fertilizzanti, stabilimenti chiave (pensiamo Portovesme) per la produzione industriale, interi distretti come quello emiliano delle piastrelle in cui aziende programmano casse integrazioni e recuperi ferie perché i costi energetici fanno lavorare in perdita. Le grandi imprese globali che hanno impianti in Italia chiudono e lasciano il Paese al proprio destino oppure programmano di importare da Paesi con costi energetici competitivi, le piccole e medie imprese italiane che producono qua per esportare nel mondo invece possono resistere poco in queste condizioni perché da mesi, in moltissimi casi, producono in perdita. Le utility italiane almeno da settembre se non da luglio osservano con preoccupazione i conti dei clienti industriali e mettono in conto un’esplosione degli insoluti.
La locomotiva italiana sta andando avanti da almeno tre mesi per forza di inerzia in condizioni di fortissimo stress. Numerosi settori si portano dietro le ferite del 2020 sotto forma di debiti elevati e interi settori negli ultimi mesi hanno continuato a produrre nella speranza di poter alzare i listini dal primo gennaio per tornare a lavorare in utile oppure di un calo dei prezzi energetici. Sono due condizioni che non si stanno materializzando. L’Unione europea marcia spedita sulla transizione energetica e non mostra ripensamenti nemmeno di fronte all’esplosione dei prezzi dei diritti sulla CO2: un mostro partorito dai burocrati di Bruxelles. Le relazioni con la Russia non migliorano e in Libia ormai c’è la Turchia che si è assicurata forniture energetiche al riparo dal dollaro.
I rialzi dei listini possono essere una soluzione per qualcuno ma non per tutti. L’inflazione prende le mosse da fattori “esogeni” e che rimarrebbero anche se le Banche centrali decidessero di alzare i tassi. Un incremento improvviso dei prezzi dal primo gennaio quando i listini vengono aggiornati e partono i nuovi contratti di fornitura costringerebbe i consumatori a fare delle scelte e inevitabilmente alcuni settori vedrebbero cali delle vendite.
Negli ultimissimi giorni si sono registrati appelli al sistema delle imprese per incrementare i salari. C’è di che essere scettici perché in uno scenario di domanda debole, crollo della natalità e impossibilità di fare previsioni per i lockdown intermittenti con le regole per le zone gialle o rosse che vengono cambiate in corsa continuamente nessuno si sogna di portarsi a casa altri costi oltre a quelli delle materie prime. In questo momento, paradossalmente, i bassi salari italiani, su cui bisognerebbe aprire un capitolo a parte, sono stato un elemento di stabilità; ma se il prezzo del gas fa per sei e quello di una lista lunghissima di altre materie prime è ben superiore al 10% non c’è produttività che tenga.
L’Italia in questo momento avrebbe bisogno di una politica industriale all’altezza di quella del “miracolo economico”. La cartina al tornasole per comprendere l’efficacia della politica industriale del Governo è l’assenza di interventi veri per abbassare il costo dell’energia; oltre i sussidi, largamente insufficienti soprattutto per le imprese, non c’è nulla se non il sogno di qualche campo eolico o solare. Nel giro di due trimestri al massimo avremo tutte le risposte con l’unica variabile dei lockdown che comprimono la domanda.
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