Oramai da circa venti giorni ci stiamo chiedendo cosa ha impresso una svolta così repentina alla crisi siriana. Cosa ha accordato così velocemente gli strumenti dei vari contendenti, da cambiare in pochi giorni il volto di un territorio così complicato? La prima analisi, parziale, era stata che il nuovo assetto doveva per forza essere frutto di un accordo tale da soddisfare tutte le esigenze contingenti degli attori regionali. Ma i fatti sono testardi, i fatti non si fanno intimidire. Gli Assad, sfuggiti ad una delle primavere arabe o forse destinatari di un fato gemello di quello dell’Ucraina, hanno semplicemente subìto. Sacrificati nel corso degli eventi dopo aver resistito, diffidando, delle promesse poco attendibili dei turchi e degli arabi.
Il disimpegno russo era necessario a Mosca per concentrare le forze sul fronte ucraino, dopo lo sforzo di tre anni di economia di guerra. Mobilitare più di un milione di uomini per tre anni di guerra fuori dei confini federali è uno sforzo enorme. L’Iran è in preda a un forte quanto dissimulato travaglio interno. Dalla tragica morte di Mahsa Amini per mano della polizia morale, dopo diverse umiliazioni militari e omicidi eccellenti, siamo passati alla ragazza seminuda all’università di Teheran spacciata per matta, fino alla youtuber Parastoo Ahmadi che canta senza velo sul palco, viene arrestata e poi liberata. La situazione interna ha imposto ai persiani di lasciare la Siria a ruota dei russi.
Ora però analizziamo l’altro versante del conflitto. Ci eravamo chiesti insistentemente cosa dava ad Israele la sicurezza che gli Accordi di Abramo avrebbero resistito, che gli Usa avrebbero esitato, che i turchi avrebbero tergiversato abbastanza da consentire l’inferno scatenato su Gaza e sul sud del Libano, e che nessuno avrebbe risposto alla chiamata all’unità islamica dell’Iran. E ancora, cosa ha indotto la Turchia, sempre presa da esercizi di equilibrio geopolitico, a voltare chiaramente le spalle agli alleati russi e iraniani dopo anni di sostegno vicendevole nel Medio Oriente. E continuando, cosa aveva portato sia la Turchia che il Qatar ad offrire alla Siria un cambio di casacca lautamente remunerato, prima di organizzare il cambio di regime a favore di Al Jawlani. E da ultimo, considerato il carattere predatorio, l’instabilità e la fame dei nuovi padroni siriani, quale potesse essere la rendita durevole in grado di garantire la loro fedeltà nel tempo senza tentazioni di tradimento.
Ecco la risposta. Da qualche giorno rimbalza sui giornali turchi la notizia di una possibile rivalutazione del progetto della Qatar pipeline, un gasdotto che, attraversando Qatar, Arabia Saudita, Giordania, Siria e Turchia, successivamente attraverso il gasdotto Nabucco dovrebbe portare il gas qatariota in Europa; un mercato da 300 miliardi di dollari l’anno.
Ma partiamo dall’inizio. A largo di Doha, al confine marino tra Qatar e Iran, c’è il South Pars/North Dome, un giacimento di gas naturale esteso per 9.700 kmq di cui 6mila kmq in territorio qatariota e 3.700 kmq in territorio iraniano. Tenete a mente questo dato e facciamo un passo indietro. Nel 2008, dopo la svolta occidentalista dell’Ucraina e la conseguente crisi del gas, i russi, per superare il problema ucraino, progettarono il gasdotto North Stream e posero l’ex cancelliere tedesco Gerard Schroeder al vertice di Rosneft. Nello stesso periodo il Qatar, da sempre alleato degli Usa, tanto che ospita la più grande base americana nel Golfo Persico, propose la costruzione della Qatar Pipeline, un gasdotto per portare il gas del South Pars/Nord Dome in Europa.
Il progetto avrebbe portato due vantaggi: estromettere la Russia dal ricchissimo mercato del gas europeo e inserirvi il Qatar con un grande ritorno geopolitico per gli Usa. Il progetto si arenò poiché la Siria, alleata di Russia e Iran, non accettò l’accordo e propose anzi di costruire l’Iran Pipeline, che dal solito giacimento attraverso Iran e Siria avrebbe portato lo stesso gas in Europa. Oggi grazie al cambio di regime in Siria, quel progetto torna alla luce. E ci fa capire molte cose.
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