Il 24 giugno è stato un giorno drammatico e al contempo avvolto nel mistero; alle ore 07:30 di Rostov in Russia, il capo della Wagner dichiara sui social di mezzo mondo di avere occupato manu militari la città e di chiedere la rimozione immediata del ministro della Difesa e del capo di stato maggiore della Federazione Russa; due sono le accuse fondamentali esposte in modo caotico, e cioè la corruzione dilagante in Russia, di cui le figure prima nominate ne sono i vertici agli apparati, e il tentativo di attacchi alle spalle alla compagnia Wagner, sia come esposizione agli scontri, in maniera troppo dispendiosa di uomini e sia come mancata fornitura ottimale di munizionamenti. Tra le righe si sapeva che un decreto presidenziale imponeva dal 1° luglio l’accorpamento della Wagner nei ranghi effettivi dell’esercito russo, così togliendo quell’autonomia e semi-clandestinità finora fiore all’occhiello di Prigozhin.



La realtà sappiamo tutti cosa ci ha propinato: un tentativo di marcia su Mosca, abortito a 200 km dalla capitale dopo una distanza percorsa da Rostov di circa 800-1.000 km; una colonna corazzata di uomini addestrati, combattenti e armati fino ai denti. Sappiamo che alle 19 si dà notizia dell’accordo raggiunto tramite la mediazione del presidente bielorusso: per i miliziani Wagner che non si sono insubordinati, possibilità di essere inquadrati nell’esercito dal 1° luglio, amnistia per i partecipanti al tentativo di golpe dati i loro meriti sui campi di battaglia in Ucraina, esilio e salvacondotto in Bielorussia per Prigozhin e per lo stesso intero corpo di miliziani se lo volesse.



Non c’è stato spargimento di sangue, e le stesse parole di Prigozhin rimandano a quest’aspetto, quando varie volte ha affermato che l’accordo era necessario per evitare di spargere sangue russo in Russia.

Putin, invece, ha paragonato l’azione dei rivoltosi ai fatti del 1917, quando la Russia zarista in guerra con la Germania ebbe lo sgradito regalo dell’arrivo clandestino di Lenin a San Pietroburgo e di lì la rivoluzione fatale di ottobre 1917; proprio tale rimando è, secondo me, il dato più notevole dell’intera giornata, perché in tal modo Putin in modo implicito ha dichiarato che dietro alle avventatezze di Prigozhin si sia nascosta una potenza straniera, e questa potenza straniera per come io valuto le cose sono gli Stati Uniti d’America. Il presidente russo, secondo me, non lo ha potuto dichiarare in modo esplicito, almeno per ora, perché di fatto ciò equivaleva a dichiarare guerra a Washington; ma secondo me in maniera palese – a occhi e orecchie esperte a saper sentire ciò che è nascosto nei messaggi – ha mostrato dichiaratamente la sua rabbia e la sua impazienza di addivenire a ogni tipo di scontro se provocato in modo sempre più severo.



Le intenzioni, invece, dei poteri forti oligarchici degli Usa erano insite nel tentativo di un rovesciamento dall’interno del regime, tramite un’occupazione da parte della popolazione delle strade e delle piazze di Mosca e San Pietroburgo, cercando di riproporre lo schema del 1991 con Boris Eltsin; stavolta però le cose sono andate del tutto in maniera opposta alle speranze, perché di speranze si trattava da parte dei dipartimenti statunitensi interessati e non di aspettative robuste; tant’è vero che con una coincidenza che nelle relazioni internazionali, quando si verifica, è sempre rivelatrice di progetti tessuti nell’ombra, quattro giorni prima Blinken si recava a Pechino a incontrare il suo omologo, che sembra da tempo abbondante non incontrasse, e addirittura poi veniva ricevuto da Xi Jinping; negli stessi giorni il premier indiano Modi era ricevuto alla Casa Bianca con tutti gli onori e i proclami magniloquenti di Biden di importantissimi accordi e prospettive comuni raggiunti, C’è poi da notare, nota curiosa e stonata, che dopo un giorno che Blinken partiva da Pechino, Biden dava del dittatore al presidente cinese; apparentemente è una nota stonata, ma in realtà è stato solo un modo abbastanza sottile di depistare l’opinione pubblica e le cancellerie di mezzo mondo da qualsiasi abboccamento che gli Usa hanno tentato con la Cina, e che i fatti di tre giorni dopo hanno drammaticamente svelato.

Inoltre, resta del veleno al fondo del bicchiere, appositamente cercato dall’Amministrazione a stelle e strisce, e cioè fare avvenire questi incontri a tre giorni prima dei fatti del 24 giugno apre comunque la strada alle supposizioni più velenose da parte dei russi nei confronti degli indiani e dei cinesi. Insomma, a livello di propaganda è stato un colpo studiato e ben sferrato da Washington: alimentare il dubbio nei russi nei confronti di queste due nazioni, vicinissime alla Russia in tante alleanze e progetti, di cui il più importante e pericoloso per Washington sono i Brics.

Veniamo ora all’altra domanda principale di questa vicenda: ma qual è il vero gioco di Prigozhin? E poi: davvero la realtà delle cose può permettere tali comportamenti ondivaghi e opposti tra di loro? Cioè, quasi eroe della Russia fino al giorno prima e traditore il giorno seguente?

La mia spiegazione per questa appariscente antinomia sta nell’utilizzo paradigmatico dei capitani di ventura italiani del Rinascimento: combattenti crudeli, temerari fedeli fino a che circostanze migliori non glielo avessero dettato; in sostanza, Prigozhin, secondo me, già da tempo aveva varie opzioni, dove avrebbe sfruttato la più conveniente per lui nel momento adeguato; è stato così abboccato dalla Cia che gli ha promesso qualcosa come una certa governance su una nuova Ucraina (dato che il destino di Zelensky è già deciso dagli Usa come personaggio da togliere di mezzo), creandogli una nuova immagine come uomo del male redento alla giusta causa, ma forse ancora di più, se gli scenari fossero diventati dinamici, una leadership sulla e nella Bielorussia.

Ora, c’è da sottolineare che sui mezzi di informazione nostri occidentali ci si chiede della sorte di Prigozhin che risulta scomparso da alcuni giorni, e parecchi commentatori lo danno oramai come un uomo in pericolo di vita stante la più o meno prossima vendetta di Putin. Io invece credo che le cose stiano in modo un po’ diverso: Prigozhin è in Bielorussia al sicuro sotto la protezione lontana di Putin, che in cambio della sua esistenza perlomeno economica e politica e forse umana, gli chiede un prezzo da pagare: la presa di Kiev irrompendo dal nord della Bielorussia, dove del resto la distanza della capitale ucraina è di circa 150 km.

Se anche si prendano per cose completamente fantasiose le cose appena dette, dalla profondità della storia, però, abbiamo tanti esempi di eventi incredibili: nel 1389 il Granduca Dimitry Donskoi sconfigge per la prima volta in campo aperto i mongoli egemoni del Granducato, di cui era formalmente suddito e per molti aspetti lo era anche sostanzialmente; dopo la presa di Mosca, tramite assedio mongolo di qualche anno più tardi, il granduca Dimitriy viene portato come sconfitto e traditore al grande Khan mongolo, il quale però gli fa salva la vita e lo fa giurare una seconda volta come suo suddito.

Le circostanze e gli uomini guidano i fatti della storia e non regole preordinate, o perlomeno non da sole, né in maniera assoluta.

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