“Riportiamo a casa Cecilia Sala”: La Stampa ha titolato così, ieri mattina, a tutta prima pagina, un appello umanitario che è impossibile non far proprio, non rilanciare, non sperare che si realizzi al più presto.
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“Bring them home”: è lo slogan che da più di 14 mesi risuona nelle strade di Gerusalemme e Tel Aviv. È l’invocazione, via via più disperata, dei familiari degli ostaggi israeliani catturati da Hamas il 7 ottobre 2023. Pochi sarebbero ancora vivi nei tunnel di Gaza: dopo una breve pausa nel novembre di un anno fa, il governo Netanyahu è stato irriducibile nel rifiutare qualsiasi accordo con i movimenti palestinesi appoggiati dall’Iran. Nel frattempo le forze armate israeliane hanno continuato a distruggere Gaza – al prezzo di 44mila morti, gli ultimi nei giorni di questo Natale – e hanno sradicato dal Libano la filoiraniana Hezbollah con altre migliaia di vittime. Dopo aver cercato un doppio scambio missilistico diretto con Teheran (il primo bombardando l’ambasciata iraniana in Siria) Israele sta ora intensificando le azioni militari contro le milizie Houti in Yemen. Ancora nel luglio scorso, intanto, un attentato attribuito al Mossad ha ucciso nel centro di Teheran il leader politico di Hamas.
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Il Foglio – con cui Cecilia Sala collabora – si è segnalato in Italia fra le voci mediatiche più ferme a fianco di Netanyahu nella sua linea dura a tutto campo; infine contro l’Iran come avversario strategico. Pochi giorni prima di Natale sul quotidiano fondato da Giuliano Ferrara ha fatto rumore la pubblicazione diretta di un intervento firmato da un ministro dell’esecutivo Netanyahu, duramente critico verso Papa Francesco, a sua volta sostenitore fermo di un cessate il fuoco immediato e di indagini internazionali per sospetto “genocidio” a Gaza.
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Il governo italiano è sempre stato diplomaticamente a fianco di quello israeliano – oltreché di quello ucraino contro la Russia – nell’ambito di una doppia linea dettata dagli Usa di Joe Biden alla Nato e sempre sostanzialmente condivisa dalla Ue. L’Unione e singoli Paesi membri – anche l’Italia – hanno manifestato contrarietà crescente per la situazione umanitaria di Gaza e per l’allargamento dei conflitti in Medio Oriente, ma l’impostazione di base non è mai cambiata. Un Paese che appoggia Israele per l’Iran resta un avversario, se non un nemico.
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Allorché alla Casa Bianca è in corso una difficile transizione fra Biden e Donald Trump e la Ue è sostanzialmente acefala per la contemporanea crisi politica in Francia e Germania, in una governance occidentale molto disarticolata si stanno confrontando due grandi linee sulla crisi geopolitica.
La prima prevede per il 2025 un generale “cessate il fuoco” sui teatri bellici e l’avvio di un “dopoguerra”: una fase di ricostruzione fisica in Ucraina e a Gaza, ma soprattutto di normalizzazione geo-economica dopo cinque anni di “disruption” globale portata dalla pandemia e poi dalle guerre. La Ue – come la Nato e forse la stessa Onu – entrerebbe da subito in una fase di ripensamento e ristrutturazione, in un quadro di progressiva stabilizzazione geopolitica.
Una seconda opzione di exit da cinque anni di “guerra mondiale” sostiene invece, in via contrapposta, lo status quo di tutte le ostilità possibili “fino alla vittoria definitiva” su ogni fronte: da parte dell’Occidente contro Russia, Cina, Iran, Nord Corea, Sud globale assortito. La strategia (chiaramente gradita a ciò che viene comunemente definito il “complesso militar-industriale”) è stata rilanciata proprio ieri sul Foglio dallo stesso Ferrara, in polemica con l’ex direttore dell’Economist Bill Emmott, autore di un appello al ritiro indirizzato al presidente ucraino Volodymyr Zelensky. L’approccio massimalista implica naturalmente il mantenimento del regime di sanzioni energetiche (al fine preteso di “affamare” la Russia e l’Iran) e una forte politica di riarmo a spese/indebitamento dei budget statali o sovrastatali europei. Sul piano militare gli obiettivi appaiono il logorio definitivo dell’apparato sovietico e la distruzione del nascente arsenale nucleare iraniano (una prova generale è già avvenuta nel secondo raid missilistico condotto da Israele). Su entrambi i fronti il traguardo ultimo sembra tuttavia estendersi al “regime change”: l’abbattimento di entrambe le “democrature”, quella del Cremlino e quella degli ayatollah (e sullo sfondo l’indebolimento del leader cinese Xi Jinping, bellicoso su Taiwan ma in crescente difficoltà economica interna).
Sembra dunque profilarsi una conferma “hard” dell’“export di democrazia” concepito da Barack Obama. Fra il 2008 e il 2016 Obama guardava a uno “scontro fra civiltà” – più politico-culturale che bellico – come passaggio obbligato e decisivo verso una “fine della storia”, egemonizzata dall’ideologia politically correct (l’inclusione globale nella democrazia “4.0” riscritta fra la Silicon Valley, Wall Street, i grandi campus e media). Quel tentativo è fallito proprio nel “laboratorio” mediorientale e nella sua appendice asiatica: il passaggio finale è stato il caotico ritiro degli Usa dall’Afghanistan nell’estate 2021. L’Iraq due volte invaso dagli Usa nell’ultimo trentennio non è mai emerso come veramente occidentalizzato; in Libia la fine del regime di Gheddafi ha lasciato il Paese in mano a milizie islamiche (dedite fra l’altro al traffico di migranti e business criminali nel Mediterraneo) e ai raid di Paesi come la Turchia, la Russia, lo stesso Israele; la Turchia è scivolata nel frattempo nell’autoritarismo islamizzato; la Siria è appena crollata su se stessa per mano di ex forze Isis. Mentre l’asse filo-occidentale fra Israele (dove cresce l’allarme-democrazia per il nazionalismo religioso) e Arabia Saudita (una monarchia assoluta islamica) è un’invenzione di Trump mal sopportata da Biden perché ispirata alla realpolitik di Henry Kissinger. Non certo da ultimo, in Egitto il fugace avvento “democratico” dei Fratelli musulmani è stato promosso e poi troncato dagli stessi Usa, che vi hanno precipitosamente reinstallato un regime militare.
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Fra gli effetti collaterali della “primavera araba” in Egitto può essere ricompresa anche la morte tragica dello studente italiano Giulio Regeni, inviato da Cambridge all’American University del Cairo per effettuare ricerche sul campo fra i “sindacati indipendenti” egiziani, anche per conto di una società privata britannica di analisi politiche. Viene ricordato come Regeni sia stato rapito e poi ucciso, con ogni evidenza da appartenenti a forze di sicurezza del Cairo, nel quinto anniversario delle proteste di piazza Tahrir del 2011. La “grande piazza occupata dai giovani democratici” è stata il format politico-mediatico fondativo della narrazione ideologica obamiana, imperniata sull’assunto che le rivolte giovanili siano una via fra le più efficaci nel rovesciare i regimi illiberali, facendoli assediare in casa dai loro stessi “sudditi”, sostenuti 24×7 dalle telecamere dei network satellitari e poi dai social, sotto totale controllo Usa.
Il set di piazza Tahrir (“piazza della liberazione” quella anti-coloniale di Nasser) fu a sua volta ricalcato a fresco su un’altra grande “piazza rivoluzionaria”: Maidan (“Indipendenza”) a Kiev. La vicenda è nota: fra il 2013 e il 2014 una “rivoluzione arancione” scalzò un presidente ucraino filosovietico e vi installò un regime filo-americano (oggi incarnato da Zelensky), come resa dei conti di un braccio di ferro geopolitico iniziato più di vent’anni prima con l’implosione dell’Urss e l’autonomia dell’Ucraina. Dal 2014 Kiev si è trovata ricollocata nella “sfera d’influenza” Usa-Nato, ma gli effetti collaterali della svolta “colorata” non sono stati lievi. A seguire: la prima guerra ucraina (con il Donbass da allora territorio di fatto conteso con Mosca); la pace di Minsk del 2015 rimasta sulla carta; l’annessione militare della Crimea alla Russia; dal febbraio 2022 una seconda guerra ucraina rapidamente “mondializzata” e disastrosa anzitutto per 40 milioni di ucraini. Larga parte di questa fase ha avuto la supervisione diretta di Biden: prima come vice di Obama delegato all’Ucraina, poi come presidente-commander in chief di tre anni di resistenza per procura di Kiev contro l’“operazione militare speciale” russa. Un dossier che al cambio della guardia alla Casa Bianca è drammaticamente irrisolto: nei fatti congelato, anche se quotidianamente aggravato da altri morti, da altre distruzioni.
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In una complicata “vacatio” di poteri a Washington (dove forse Biden non è più da tempo veramente ai comandi) non sarebbe sorprendente che una parte del cosiddetto “Stato profondo” americano meditasse di esportare la guerra (“civile”) direttamente nella piazze di Teheran, tentando un’azione a morsa con la pressione militare esterna di Israele. I segnali non mancano: soprattutto nel mondo giovanile, il più naturalmente insofferente al regime clericale islamico al potere dal 1979. Con un’opinione pubblica occidentale forse più sensibile alla durezza di Teheran con il mondo femminile e le minoranze, che alla reale intrattabilità dell’Iran sul piano geopolitico.
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Quando Cecilia Sala – presa in ostaggio dall’Iran assieme all’Italia intera – sarà tornata a casa, la sua vicenda non potrà che alimentare il confronto sulla politica estera “occidentale” che anche in Italia sembra soffrire sempre di più la rigidità dell’agenda Biden; ormai superata, anzitutto a giudizio democratico degli elettori americani.
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