La lunga giornata dei leader europei riuniti a Bruxelles per decidere i nuovi vertici Ue si è chiusa poco prima della mezzanotte con una lapidaria notizia dell’agenzia Ansa: “L’Italia si asterrà su Ursula von der Leyen e voterà contro Antonio Costa e Kaja Kallas. Lo si apprende da più fonti diplomatiche”. È l’epilogo di una trattativa che in 48 ore si è capovolta. Due giorni fa il quadro comprendeva sì l’accordo tra popolari, socialisti e liberali (che avevano governato gli ultimi cinque anni), ma con la presidente uscente della Commissione, Ursula von der Leyen, che garantiva: “Parlerò direttamente con Giorgia Meloni per trovare un accordo politico”. Una mano tesa per tutelarsi dai franchi tiratori e al tempo stesso assicurare un peso a uno dei Paesi fondatori.



Il giorno dopo, però, l’aria era già cambiata. La premier italiana in Parlamento, durante le comunicazioni di rito alla vigilia di ogni riunione del Consiglio europeo, aveva usato espressioni per nulla concilianti, parlando di classi dirigenti Ue “tentate di nascondere la polvere sotto il tappeto” e di “continuare con vecchie e deludenti logiche”; un’Unione “invasiva”, che “pretende di imporre ai cittadini cosa mangiare” e di “omologare culture e tradizioni”, in cui “la logica del consenso viene scavalcata dalla logica dei caminetti nei quali alcuni pretendono di decidere per tutti”, “una sorta di ‘conventio ad excludendum’ che a nome del governo italiano non intendo accettare”. E ancora: “Nessun vero democratico che crede nella sovranità popolare può in cuor suo ritenere accettabile che in Europa si sia tentato di negoziare le posizioni di vertice prima ancora che i cittadini si recassero alle urne”. Il cambio di prospettiva è radicale.



Quale fosse il clima di ieri lo si è capito guardando la “foto di famiglia” scattata all’arrivo dei leader Ue: la Meloni se ne stava con un’espressione impietrita, chiusa nel suo abito color lavanda, dalla parte opposta rispetto al tedesco Scholz, al francese Macron e alla stessa Ursula von der Leyen, che invece dispensavano sorrisi soddisfatti. Uno di coloro che – fino a quel momento – era stato tra i più ostili alla premier italiana, cioè il polacco Donald Tusk, regalava parole al miele: “Non prenderemo nessuna decisione senza Meloni”. Ma su un altro tavolo la maggioranza Ppe-Pse-Alde era al lavoro per spaccare i conservatori. L’azione è culminata nelle parole del polacco Mateusz Morawiecki, leader del Pis (Diritto e giustizia), che si è detto pronto ad abbandonare i conservatori, cioè il gruppo dell’Europarlamento cui aderisce anche Fratelli d’Italia, a favore di un nuovo gruppo con i partiti della destra populista.



“La probabilità è 50/50”, ha specificato Tusk. Il che significa demolire le speranze della Meloni di trattare con i partner Ue da una posizione di forza: con il Pis, il gruppo Ecr (conservatori riformisti) sarebbe stato il terzo a Strasburgo dopo Pse e Ppe. Persi gli ungheresi di Orbán, persi i polacchi di Morawiecki, alla premier italiana non è rimasto grande peso contrattuale. Qualcuno sospetta, quanto ai ripensamenti del Pis, che dietro vi sia una manovra di palazzo architettata per isolare la Meloni. Che alla fine si è trovata all’angolo, tagliata fuori da un patto di ferro. L’establishment ha operato su due fronti: blindare l’accordo Ppe-Pse-Alde e frantumare una delle destre europee. Poi in serata, alla cena di Bruxelles, si sono sprecati i sorrisi di circostanza. Il momento della verità sarà a luglio, quando l’Europarlamento dovrà votare, a scrutinio segreto, la fiducia alla nuova Commissione: lì si vedrà se Ursula avrà i voti sufficienti o se verrà impallinata dai franchi tiratori, che sembrano agguerriti soprattutto nelle file del Ppe.

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