Non è la prima volta che si vedono negli ultimi mesi, ma l’incontro balneare tra i due Beppe (Sala, sindaco di Milano, e Grillo, fondatore del M5s) che si è svolto l’altro giorno nella villa dell’ex comico a Marina di Bibbona assume una coloritura particolare. I due si erano incontrati a Milano sotto Natale, quando il Covid era uno spettro lontano mentre era il caso di ragionare sulle regionali, in particolare sull’Emilia–Romagna che andava al voto a fine gennaio. Allora non solo Sala era un sostenitore di Stefano Bonaccini, governatore riconfermato, ma di lui si parlava anche come di un possibile leader di un movimento dei sindaci fiancheggiatori della sinistra, assieme a Giorgio Gori, primo cittadino di Bergamo sempre al fianco di Sala prima nel sottovalutare i rischi del coronavirus e poi, nei mesi del lockdown, a randellare la giunta regionale della Lombardia.
Un paio di mesi fa Sala ha pubblicato un libro (con intervista al Corriere della Sera e recensione di Enrico Letta su Repubblica) in cui rivendicava di essere stato “tra i primi di sinistra a dire che dovevamo dialogare con i 5 Stelle. Con Grillo ci vediamo, ci parliamo. Ha idee interessanti”. Le quali però non collimano molto con quelle di Nicola Zingaretti, che di Sala sarebbe il capo partito. Le idee sono distanti soprattutto in questo periodo, quando Grillo fa di tutto per mettere i bastoni tra le ruote al segretario del Pd. Niente di eclatante, sia chiaro: formalmente nella coalizione di governo fila tutto come si dovrebbe. Ma la mossa di Virginia Raggi ispirata da Grillo stesso, cioè l’annuncio della ricandidatura, ha portato a galla tutte le spaccature e i timori interni al Pd che ne confermano il profilo assunto con la segreteria Zingaretti: un partito indeciso a tutto.
La Raggi sa che a Roma perderebbe se avesse davanti una forte personalità, di qualunque schieramento. Ma al momento nel centrosinistra le candidature che si profilano sono di basso profilo perché i “big” del Pd romano si tengono lontani dalla corsa per il Campidoglio. Si fanno i nomi di David Sassoli, Enrico Letta, addirittura di Paolo Gentiloni. E anche se scendesse in campo un pezzo da 90, non è scontato che gli ex Pd finiti con Carlo Calenda, Matteo Renzi o in Leu gli darebbero una mano. Per questo Zingaretti aveva cominciato a valutare con Giuseppe Conte un appoggio dei “grillini di governo” a una candidatura Pd magari non di primissimo piano.
Ispirata da Grillo, la sindaca invece scompiglia le carte sia tra i 5 Stelle, che devono digerire l’addio al secondo mandato come scadenza inderogabile dell’esperienza politica, sia nei vertici del Pd, che negli ultimi mesi non avevano perso occasione per criticare l’amministrazione Raggi. In mezzo al puzzle delle divisioni nel Pd, la sindaca potrebbe addirittura rischiare di finire al ballottaggio. E a quel punto tutto potrebbe succedere.
All’asse Conte-Zingaretti risponde dunque il dialogo tra i due Beppe, con il sindaco Pd sempre pronto a sostenere un partito dei sindaci. Del resto, farla da padrone anche nel Partito democratico è un vecchio sogno di Grillo. Nel 2009 aveva addirittura annunciato di voler prendere la tessera per concorrere alle primarie per l’elezione del segretario. Aveva chiesto l’iscrizione al circolo Pd di Arzachena, Costa Smeralda, mica a Centocelle. Gli fu risposto che non aveva i requisiti: una “provocazione” per Piero Fassino, mentre Pierluigi Bersani replicò che “il partito è una cosa seria”. Com’è finita, si sa: il “partito serio” è ridotto in Parlamento alla metà del M5s, Fassino e Bersani lontani sia pure per motivi opposti mentre Grillo è ancora padrone della scena. Zingaretti ha i suoi buoni motivi per non stare affatto sereno.
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