È un nodo antico di cui si parlò molto ai tempi della preparazione del Trattato di Roma e nei primi anni di funzionamento di quella che allora si chiamava Comunità economica europea, composta unicamente di sei Stati membri: il ruolo e le funzioni della Commissione europea.
Nasceva modellata sulle alte autorità francesi, che riguardavano di norma un solo settore e avevano compiti spiccatamente tecnici. Il modello funzionava bene per la Comunità europea del carbone e dell’acciaio e per l’Euratom, ma mal si adattava ad una Cee che, in qualche modo, abbracciava tutti i settori economici (anche quelli che non erano strettamente oggetto di “politiche comunitarie”) ed esprimeva pareri, ove non giudizi, sulle politiche economiche dei singoli Stati membri.
Ci furono scontri (quale quello tra la Francia, altri Stati membri e la Commissione nel 1965-66). Si trovò, poi, più un compromesso su un “modus vivendi” anche a ragione dell’allargamento della Cee, della sua trasformazione di una Unione Europea che sarebbe stata “sempre più stretta” ma non aveva più ambizioni federaliste, e soprattutto non aveva più quella di costruire una federazione nell’arco di pochi decenni. Alla Commissione restava il “diritto esclusivo di iniziativa”, ossia di fare proposte, ma il potere politico decisionale era saldamente nelle competenze del Consiglio dei capi di Stato e di Governo (o dei loro ministri) sulla base di anche di pareri del Parlamento europeo.
Il problema torna di attualità a ragione di due documenti recenti: la proposta della Commissione su come riformare il Patto di stabilità e crescita e un lavoro di Marco Buti e Marcello Messori sull’aumento della Central fiscal capacity dell’Ue. Occorre precisare che il lavoro di Buti-Messori – scrivono gli autori – esprime le loro idee personali e non delle istituzioni di cui fanno parte. Messori è professore alla Luiss, un’istituzione accademica i cui docenti parlano e scrivono sempre a titolo personale. Differente il caso di Marco Buti. Funzionario e dirigente della Commissione europea dal 1987, è ora capo di gabinetto del Commissario responsabile degli affari economici e finanziari Paolo Gentiloni. Non è un incarico part-time, ma una veste che si indossa sino a quando si è nel ruolo. Qualsiasi cosa si dice, riflette il punto di vista se non della Commissione nel suo “plenum”, almeno del commissario di cui si dirige il gabinetto. Un po’ come un prete che indossa la tonaca (magari figurativa) anche quando dorme.
I due lavori propongono abbastanza esplicitamente un ampliamento dei compiti della Commissione in campi spiccatamente “politici”. A proposito della riforma del Patto di stabilità e crescita – lo ha notato Veronica De Romanis su La Stampa – di valutare la “sostenibilità” del debito delle pubbliche amministrazioni degli Stati membri maggiormente indebitati e trarne tutta una serie di implicazioni in materia di azioni Ue nei confronti di questi Stati. Il lavoro sulla Central fiscal capacity propone un aumento delle risorse a disposizione della Commissione, partendo dall’esigenza di fornire migliori e maggiori “beni pubblici europei”, tramite in gran misura ricorso al mercato finanziario internazionale.
In ambedue i casi, si rafforzano e si allargano le funzioni della Commissione entrando in campi squisitamente politici. Inoltre, valutare la “sostenibilità” del debito delle pubbliche amministrazioni degli Stati membri comporta da un lato competenze tecniche specifiche che – credo – abbiano, tra le organizzazioni internazionali, unicamente il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale perché sono state plasmate a questo scopo. Tanto questa funzione quanto l’incremento della Central fiscal capacity implicano analizzare politiche economiche del futuro a medio termine, spesso elaborate da Governi non ancora in carica.
In materia, si possono avere idee differenti. Si può concepire una Ue in cui la Commissione sia il motore politico e abbia l’effettivo potere decisionale, ma occorre discuterne dettagliatamente e verosimilmente modificare i trattati.
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